C’è molta confusione attorno al tema della «precarietà». Se ne parla infatti come se si trattasse di un universo omogeneo, e vi fosse una linea verticale di separazione tra i precari e gli stabili. Invece non è così. Il mondo dei lavori temporanei è molto variegato e diversi sono i motivi che stanno all’origine del diffondersi del fenomeno. Intanto occorre chiedersi quand’è che si diventa precari. Non quando si viene assunti con un contratto temporaneo in fase di primo inserimento nel mercato del lavoro. Queste sono anzi esperienze utili, specialmente per i giovani. Si diventa precari quando le assunzioni temporanee si succedono e la condizione di instabilità diventa uno stato permanente, un ghetto da cui non si riesce più ad uscire. Qui si determina una pericolosa frattura sociale: perché a questo punto il lavoro non è più uno strumento della cittadinanza, una forma di integrazione e sicurezza, ma il suo contrario, una fonte di incertezza, ansia, di impossibilità di programmare la propria vita. Poi bisogna chiedersi perché le imprese oggi chiedono soprattutto lavoro temporaneo. Le statistiche dicono che nel 2011 queste assunzioni ammontano a quasi il 90% del totale. Vi sono tre spiegazioni possibili. La prima sta nel fatto che esistono ragioni oggettive che giustificano le assunzioni temporanee: l’instabilità dei mercati, la variabilità delle commesse ecc. A fronte di tali ragioni, che vanno specificamente motivate, il lavoro temporaneo è legittimo: in questo caso occorrerà prevedere per i lavoratori discontinui adeguate misure in termini di Welfare (indennità di disoccupazione per i periodi di inattività, contribuzione figurativa a fini pensionistici). La seconda spiegazione ha tutt’altro segno: si assumono lavoratori temporanei anche con contratti di lavoro pseudoautonomo, in frode alla legge, per esigenze produttive strutturali al solo fine di risparmiare i costi del lavoro, e scaricare sul lavoro il rischio di impresa. Questa pratica è molto diffusa ed è all’origine, in buona parte, del vistoso spostamento nella distribuzione dei redditi tra lavoro, profitti e rendita. Le pratiche abusive vanno quindi semplicemente represse, in primo luogo affidando agli Ispettorati del lavoro poteri più cogenti, esattamente come si fa quando si impegna la guardia di finanza contro l’evasione fiscale. C’è poi un terzo caso. Quello per cui l’imprenditore o fa così o chiude, perché non è in grado di affrontare il costo complessivo del lavoro regolare. Qui siamo al confine del lavoro sommerso, illegale, contro il quale non c’è che un rimedio: abbassare la pressione fiscale su lavoro e imprese. Infine occorre differenziare le diverse tipologie di lavoro precario. C’è intanto un diffuso precariato «alto», fatto soprattutto di giovani laureati, che aspirano a collocazioni professionali difficilmente disponibili, a seguito dei tagli alla spesa pubblica. Si tratta dei 150mila precari stimati nella pubblica amministrazione, a seguito del blocco della spesa per il personale specialmente negli enti locali, delle decine di migliaia di precari della scuola, delle università, dei giornali e della editoria, del vario mondo collegato alla disoccupazione intellettuale nei settori della cultura e delle arti. Sono questi i soggetti che hanno dato voce e portato in prima pagina il tema del precariato. Poco si sa invece delle altre innumerevoli persone, i veri «invisibili», che orbitano nei circuiti del precariato «basso», nel lavoro interinale, nel commercio, nell’industria alberghiera e turistica, nella assistenza agli anziani e nelle collaborazioni domestiche, nell’agricoltura, dove lavorano, sia detto per inciso, i tre milioni di extracomunitari regolari. Tra questi problemi e gli strumenti previsti dal disegno di legge di riforma del mercato del lavoro presentato dal governo Monti c’è una enorme distanza. I problemi indicati non si risolvono con misure normative uniformi, esigono invece una gamma di interventi complessi e diversificati, tenendo conto in particolare delle radicali differenze che esistono sul piano territoriale, tra aree più e meno sviluppate, tra Nord e Sud del Paese. Tutte cose che non possono essere messe in carico a un governo di emergenza e transizione, ma a un progetto strategico di alternativa politica
L’Unità 29.04.12