Gli Stati Uniti d’America, se le università perdono iscritti e smalto, rischiano il futuro. Noi rischiamo subito: lo dicono il buon senso, l’osservazione e i numeri. Gli americani nati nel 1980, quando hanno compiuto 30 anni nel 2010, avevano studiato soltanto otto mesi più dei genitori. Un’inezia, destinata presto a scomparire. Claudia Goldin e Lawrence Katz, gli economisti di Harvard University autori della ricerca, sostengono che questa tendenza avrà conseguenze pesanti. In un mercato globale competitivo, gli Stati Uniti si troveranno presto in difficoltà. «La ricchezza delle nazioni non dipende più dalle materie prime. O dal capitale fisico. Sta nel capitale umano» afferma Ms. Goldin.
Alcuni dei motivi del declino nell’istruzione appaiono decisamente americani: i costi del college (primo livello universitario); la scelta degli studenti di non indebitarsi, com’è stata finora la regola. Altre ragioni sembrano comuni a tutto l’Occidente, con poche fortunate eccezioni: il numero crescente di ragazzi che lasciano (drop out) durante le scuole superiori; il fatto che lunghi studi non garantiscano più maggiori guadagni; la fragilità psicologica di una generazione cresciuta in un lungo periodo di prosperità.
Un altro elemento che sta allontanando i giovani dagli studi potrebbe essere questo: la minore spinta dei genitori, restii ad avviare i figli verso studi che non procurano gli impieghi o il prestigio sociale di un tempo. L’ambizione delle famiglie asiatiche appare invece feroce, e accademicamente produttiva. Alcune università negli USA hanno dovuto introdurre un sistema di quote per garantire il posto ai ragazzi americani. Un accesso basato soltanto sul merito li avrebbe visti soccombere davanti ai motivatissimi asiatici, che già dominano le migliori università. Assistere a una lezione in un corso undergraduate di Harvard porta a chiedersi, davanti a tanti volti orientali: in che continente ci troviamo?
In Europa l’immigrazione è più recente (come in Italia) e, comunque, di origine diversa. Ma il cammino di una generazione sembra comunque segnato. Per motivi demografici ed economici, i giovani inglesi, spagnoli, francesi e italiani staranno peggio dei genitori. E sarà la prima volta che accade.
È un’inversione pericolosa per molti motivi. Il primo dei quali si chiama dipendenza. Dipendenza economica, culturale, psicologica. La generazione dei figli del boom (nati tra il 1946 e la fine degli anni 60) appare spesso egoisticamente felice di conservare il primato; ma dovrebbe comprenderne anche l’ingiustizia e valutarne i rischi. Veder ciondolare nella proprie case «la generazione rassegnata» non può costituire motivo di orgoglio: soprattutto in Italia, il paese più anziano d’Europa, quello dove il ricambio s’annunciava comunque più difficile. Cresce il numero dei giovani connazionali convinti che gli studi non servano a costruirsi il futuro. Le rigidità del mercato del lavoro, e gli egoismi generazionali mascherati da editti sindacali, non aiutano.
Per questo appare grave la vicenda denuncia ieri sul Corriere dall’on. Guglielmo Vaccaro. La legge «Contresodo/Italians», che concede benefici fiscali a molti connazionali di rientro, approvata a larghissima maggioranza dal Parlamento nel 2010, è di fatto bloccata dalla mancata adozione di una circolare attuativa da parte dell’Agenzia delle Entrate (sempre solerte quando si tratta della nostra puntualità fiscale). Se non arriverà entro il 27 maggio, l’onorevole Vaccaro ha annunciato le proprie dimissioni, perché — ha detto — «ci ho messo la faccia di fronte a decine di migliaia di giovani italiani potenzialmente interessati al provvedimento».
Ma la faccia, davanti alle nuove generazioni, ce l’abbiamo messa anche tutti noi. Non solo verso i 300.000 italiani all’estero con una istruzione superiore (dato OCSE 2011), ma verso i milioni di giovani connazionali che — dovunque — aspettano un incoraggiamento e una prospettiva. Gli Stati Uniti d’America, se le università perdono iscritti e smalto, rischiano il futuro. Noi rischiamo subito: lo dicono il buon senso, l’osservazione e i numeri. L’ha detto anche Mario Monti, più volte, all’inizio del suo mandato, per giustificare i sacrifici richiesti: dobbiamo farlo per i nostri giovani. Speriamo se ne ricordi, il presidente del Consiglio: dei giovani, intendo. Dei sacrifici — lo abbiamo visto — il governo non s’è dimenticato.
Ma l’immagine del fiume che, di colpo, prende a scorrere in senso contrario è inquietante. E dovrebbe preoccupare tutti gli italiani adulti, non solo le istituzioni. Creare occupazione «slegando l’Italia» — come auspica Giuseppe Roma, direttore generale del Censis — porterebbe anche a questo: offrire posti di lavoro e retribuzioni che giustifichino anni di studi.
Lasciare a chi viene dopo di noi solo una montagna di debito pubblico e pensioni da sopravvivenza: non era quello che sognavamo a vent’anni, o sbaglio?
Il Corriere della Sera 28.04.12