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"Il Paese delle piccole città", di Irene Tinagli

È un’interessante fotografia del nostro Paese quella che sta emergendo dai primi risultati del Censimento 2011. Interessante non solo per ciò che cambia, ma anche (e forse ancora di più) per ciò che invece resta uguale a se stesso, magari anche in controtendenza con quel che avviene nel resto del mondo. È questo il caso della distribuzione geografica della popolazione sul territorio, che resta molto frammentata. Il 66,4% degli italiani vive in città piccole o medie, con meno di 50.000 abitanti, e solo il 22,8% vive nelle 45 città italiane con oltre 100.000 abitanti.

Non solo, ma questo dato fa parte di un trend che va rafforzandosi. I Comuni di dimensione medio-piccola (tra 5 mila e 20 mila abitanti) hanno aumentato la popolazione dell’8,1% (un valore quasi doppio rispetto a quello nazionale).

Quelli di medie dimensioni del 5,2%, mentre nei Comuni grandi la popolazione è rimasta pressoché stazionaria (0,2%). Le grandi città, in sostanza, perdono abitanti mentre sono quelle medie e piccole ad attrarne. Come indica il documento Istat, nei sei Comuni più grandi (Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo e Genova) negli ultimi decenni si è assistito a un lento ma progressivo decremento di popolazione, un decremento che sembra confermato dai dati preliminari (con l’interessante eccezione di Torino e Roma).

Questi dati colpiscono molto perché sono in controtendenza con quanto avviene nel resto del mondo. Da diversi anni ormai molti osservatori internazionali hanno evidenziato una forte crescita delle grandi città. Un fenomeno trainato non solo dallo sviluppo dell’Asia e di altri Paesi emergenti con le loro megalopoli da decine di milioni di abitanti, ma anche dalla rinascita di molte città occidentali, americane ed europee. Città che negli Anni Settanta e Ottanta avevano visto forti contrazioni di popolazione, frutto di un declino e un processo di trasformazione economica e produttiva che aveva colpito sia di qua che di là dall’Oceano. Una crisi pesante soprattutto per quelle città che fino a quel momento erano state le più prospere e industriose: New York, Chicago, Detroit, Pittsburgh, ma anche Amsterdam, Berlino, Oslo, Stoccolma, per non parlare di luoghi come Manchester o Liverpool (in quegli anni Liverpool perdeva qualcosa come il 4-5% di popolazione all’anno). Poi, negli Anni Novanta, fu chiara l’inversione di tendenza. E recentemente sono tornate a crescere quasi tutte. Persino Detroit e Pittsburgh, che per oltre trent’anni hanno registrato perdite, stanno invertendo tendenza. Stando ai dati delle Nazioni Unite, Oslo negli ultimi anni cresce a ritmi di quasi il 2% annuo, Stoccolma dell’1,7%, Madrid quasi del 3%, Barcellona dell’1,5%, e molte altre segnano aumenti costanti anche se più contenuti.

Una rinascita legata sostanzialmente a due fenomeni. Da un lato alla trasformazione del sistema economico globale, che ha visto l’emergere di nuovi settori industriali legati ai servizi avanzati, alla creatività, l’innovazione e al design – tutte cose che non solo non hanno bisogno di grandi fabbriche nelle periferie, ma che anzi traggono beneficio dalla prossimità a servizi, aziende, professionisti e attività «complementari» alle proprie. Dall’altro lato al parallelo cambiamento nella struttura occupazionale di molti Paesi, con l’aumento del peso di professionisti, manager, designer, ingegneri ed altre professionalità altamente qualificate. Persone che, come mostrano molti studi, tendono a preferire uno stile di vita «urbano», con più servizi e con maggiori attività ricreative e culturali a disposizione. Non è un caso se oggi città come New York, Londra, Stoccolma o Oslo hanno percentuali di professionisti e «lavoratori creativi» che vanno dal 40 al 50% della forza lavoro. Questi due fenomeni hanno ridisegnato e continuano ad influenzare profondamente la geografia economica e sociale non solo dei Paesi emergenti ma anche di quelli industrializzati, con conseguenze importanti sulla loro capacità di produrre innovazione, attrarre talenti ed investimenti internazionali, nonché di sfruttare sinergie ed economie di scala che consentono di realizzare una miglior efficienza energetica e minor impatto ambientale (numerosi studi recenti mostrano un impatto ambientale pro capite significativamente minore nelle grandi città che nelle piccole).

Di fronte a queste dinamiche internazionali, le tendenze che si stanno registrando in Italia non possono che sollevare riflessioni ed interrogativi. Non si tratta né di mettere sotto accusa né di difendere incondizionatamente la nostra struttura territoriale, ma semplicemente di analizzare in modo serio tutte le caratteristiche e le implicazioni di una realtà urbana che è al tempo stesso conseguenza e concausa di importanti dinamiche economiche e sociali del Paese. Per troppo tempo abbiamo trascurato le problematiche e le potenzialità delle nostre città e della peculiare «geografia economica» che ci caratterizza, con riflessioni superficiali o ideologiche, dati approssimativi e politiche urbane scarse se non inesistenti. Forse è il caso, almeno su questo, di invertire tendenza.

La Stampa 28.04.12

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“Immigrati, dal panico al buonsenso”, di GIOVANNA ZINCONE

La popolazione italiana è fatta sempre più di immigrati. E, come sappiamo, la nozione di abitante è sempre meno collegata a quella di cittadino. I primi dati del Censimento 2011 ci dicono come l’Italia abbia raggiunto il massimo storico nel numero di abitanti l’anno scorso, sfiorando i 60 milioni, e tenendo quindi il passo con le altre grandi nazioni europee, come Francia e Gran Bretagna, che hanno varcato questa soglia nell’ultimo decennio. Ci dicono anche come la popolazione sia cresciuta maggiormente al Nord, e come due grandi città, Roma e Torino, abbiano invertito la tendenza alla decrescita, recuperando abitanti rispetto al 2001.

È uno scenario diverso da quello registrato 10 anni fa, e soprattutto è uno scenario del tutto difforme da quello che le migliori previsioni demografiche degli Anni 80 e 90 avevano ipotizzato. Rilevando la bassa natalità registrata tra la popolazione nazionale, prevedevano per il 2011 un’Italia più piccola – ben staccata dalla pattuglia di testa dei Paesi europei – e più vecchia, più meridionalizzata e de-urbanizzata. La variabile che ha cambiato radicalmente le carte in tavola, il singolo più importante fattore di mutamento ha un nome ben preciso: immigrazione.

Rispetto al censimento 2001 la popolazione straniera «abitualmente dimorante» in Italia è quasi triplicata: da circa 1.300.000 a circa 3.770.000 (un dato provvisorio). E il censimento, per quanto ci dia i dati più approfonditi, non è l’ultima foto scattata, e non può utilizzare né il grandangolo né il macro: molti italiani si sottraggono alla rilevazione, e a maggior ragione questo accade per gli stranieri. Se guardiamo ai dati Istat basati sulle rilevazioni anagrafiche, gli stranieri residenti in Italia, secondo gli ultimi dati disponibili, sono 4.570.317, pari a circa il 7,5% della popolazione. Ma anche così aggiornata, la consistenza degli stranieri in Italia resta sottovalutata dai dati ufficiali.

Se ai residenti si aggiungono, secondo la stima del Dossier Caritas, le persone regolarmente presenti ma non registrate in anagrafe, e i veri e propri irregolari, la cifra sale ulteriormente e supera ampiamente i cinque milioni.

Non meraviglia quindi che una trasformazione così rapida e importante abbia suscitato una sensazione di spaesamento: tanti immigrati, così in fretta, e per di più tanti irregolari, non sono un fenomeno al quale ci si adatti con disinvoltura.

Soprattutto il carattere irregolare preoccupa, ma un po’ a ragione e un po’ a torto. A ragione, perché segnala un’immigrazione fuori controllo e potrebbe far supporre che le nostre frontiere siano porose. A torto, perché il grosso degli irregolari non è entrato clandestinamente pur di trovare una via di fuga da situazioni disperate. Gran parte degli irregolari entra legalmente, seppure da un uscio laterale: utilizzano cioè un permesso di soggiorno valido che poi scade, perché magari era stato rilasciato per improbabili motivi turistici, mentre i titolari volevano cercare lavoro e fermarsi. E, almeno finché la situazione economica non si è fatta dura, ci sono pure riusciti. Quegli immigrati di straforo sono diventati lavoratori in regola con il permesso di soggiorno.

Dal 1998 al 2012 ci sono state tre sanatorie, per un totale di circa 1.160.000 persone, ma non si è trattato di grandiose estrazioni di biglietti tutti vincenti. Per essere regolarizzati c’era bisogno di un contratto di lavoro. Quindi quel vasto universo, quelle impressionanti cifre che oggi registriamo di lavoratori immigrati, di decorose famiglie e di cari bambini che hanno origini straniere, hanno attraversato la porta stretta dell’irregolarità. Meglio ricordarselo, quando siamo presi dal panico di perdita di controllo.

Meglio consolarsi constatando che la stragrande maggioranza di chi entra, anche se di straforo, fa più bene che male al nostro Paese. E se si pensa che si debba contenere l’immigrazione, bisogna osservare che a dissuadere i potenziali immigrati a entrare, e a spingere quelli presenti a rientrare nella patria di origine, ben più della repressione sta cominciando ad agire la recessione. Gli immigrati continuano a crescere, ma di poco, a un ritmo più ridotto degli anni precedenti. La disoccupazione ha colpito in particolare i lavoratori immigrati. Il tasso annuale medio è passato dall’11,6% del 2010 al 12,1% del 2011, crescendo molto più di quanto non sia accaduto per gli italiani. E, se anche nel 2011 ci sono stati 170.000 lavoratori immigrati in più, il loro livello di occupazione è sceso dal 63,1% del 2010 al 62,3%, pur rimanendo comunque più alto di quello dei lavoratori italiani, che è al 56,6%.

Insomma, gli immigrati sono formalmente – come detto all’inizio – il 7,5% della popolazione, ma costituiscono il 9,4% della forza lavoro. La presenza degli immigrati, dei lavoratori immigrati non è dunque un’opzione che si può rifiutare, si può semmai governare con buon senso. Gli italiani sembrano averne. In un sondaggio comparato che include vari Paesi europei, gli italiani risultano i meno preoccupati della concorrenza degli immigrati nel mercato del lavoro. Due terzi (69%) non ritengono che portino via posti agli italiani e tre quarti (76%) affermano che gli immigrati vengono impiegati per mansioni che non potrebbero essere svolte altrimenti. Insomma gli italiani sono pronti ad augurare anche ai lavoratori immigrati un buon 1˚ maggio.

La Stampa 28.04.12