Si può cercare di esprimere lo stato d´animo degli imprenditori italiani in questo periodo segnato dalla recessione? Verrebbe da dire di no: si rischia di raccontare banalità. E allora cercherò di comunicare la mia esperienza, verrebbe da dire il mio vissuto.
Ecco, vi parlo di un´impresa italiana di tecnologie medicali le cui vendite sui mercati esteri superano il 60%, che investe in ricerca e sviluppo l´8% del suo fatturato e i cui occupati (oltre un migliaio tra Italia ed estero) sono quasi tutti ingegneri o diplomati tecnici. E i competitori sono multinazionali straniere. È noto, la filiera delle tecnologie medicali ha un grandissimo potenziale e un elevato tasso di innovazione: si parla già oggi di una nuova rivoluzione, la medicina digitale. E sull´industria della salute stanno investendo i principali Paesi compresi quelli emergenti: dalla Cina al Brasile, dalla Corea all´India, al Messico.
Sulla sanità si sta giocando una decisiva partita a scala mondiale perché le diverse tecnologie, basate soprattutto sull´elettronica e l´informatica, sulla chimica e sui nuovi materiali tendono sempre più ad integrarsi nel ciclo ricerca-produzione, guidato dalle imprese più innovative che propongono alla comunità medica nuovi prodotti, nuove tecniche strumentali e nuove apparecchiature. In altre parole, la sanità non è solo una spesa, un costo ma è sempre più un´area di investimento scientifico e tecnologico, proprio perché è un grande mercato. E i principali Paesi industrializzati hanno ormai compreso che se non è possibile ridurre la spesa sanitaria (ma che va comunque contenuta), è certamente possibile utilizzarla come “industria della salute”, un´occasione per la crescita del proprio apparato scientifico, tecnologico e industriale, per non parlare delle grandi opportunità occupazionali.
L´Italia, negli anni ´80, aveva avviato alcune significative iniziative pubbliche, poi basta. E la conferma viene da uno studio – in corso di pubblicazione – di Assobiomedica, redatto in collaborazione con Intesa Sanpaolo, Scuola Superiore Sant´Anna di Pisa e Università di Milano Bicocca, sul settore dei dispositivi medici (cioè tutte le tecnologie mediche, esclusi i farmaci). L´Italia – risulta da questo Rapporto – è tra i pochi grandi Paesi che presentano un deficit strutturale della bilancia commerciale (oltre l´80% delle apparecchiature acquistate dai nostri ospedali sono d´importazione) e un modesto posizionamento nella classifica mondiale dei brevetti (14esimo Paese per inventori e 15esimo per aziende). Certo contiamo su tante eccellenze di rilievo, dove ognuno ha fatto la sua strada, non supportato dal sistema Paese. La Germania, sotto il governo Kohl, aveva lanciato un grande programma di investimenti nelle tecnologie medicali coinvolgendo tutti gli attori pubblici e privati. Noi, come Italia, avremmo sulla carta le stesse potenzialità della Germania (che oggi è il secondo grande Paese, dopo gli Stati Uniti, nella produzione dei brevetti e nel saldo positivo della bilancia commerciale) perché in questo settore sono necessarie sia le tradizionali tecnologie meccaniche manifatturiere sia le nuove filiere biochimiche, materiali, elettroniche ed informatiche
Ma oggi qual è la situazione nel nostro Paese in questo esemplare settore high–tech? Nello scorso anno il servizio sanitario nazionale (sotto la spinta del contenimento dei costi) ha tagliato drasticamente gli investimenti in tecnologie, i tempi medi di pagamento delle forniture, nella media nazionale, superano i 300 giorni (contro una media europea di 40 giorni), con punte di oltre 2 anni (in Campania, Calabria e Molise) e la nostra burocrazia frena persino il pagamento alle imprese degli esborsi relativi a programmi di ricerca avviati anche da più di quattro-cinque anni, vanificando i benefici attesi o addirittura mettendo a rischio la sopravvivenza soprattutto delle medie e piccole imprese.
Verrebbe da dire un quadro desolante. Noi rischiamo di privilegiare solo una visione malthusiana della spesa sanitaria: un contenimento dei costi in senso assoluto e non si tratta certo di mitizzare gli investimenti in tecnologie perché molti disservizi e costi inutili potrebbero essere eliminati tramite una più efficiente organizzazione.
Tuttavia non vedere il “volto” industriale del sistema salute è anche questo un segno di arretratezza del nostro Paese. Certo il ministro Passera ha detto – ed è condivisibile – che nessuno oggi ha la bacchetta magica. E per le nostre aziende – se si vuole restare competitivi sul mercato mondiale – la strada è obbligata: continuare a investire in ricerca e sviluppo, conquistare nuove quote di mercato all´estero e fare “reti” d´impresa con i nostri fornitori italiani.
È evidente che se la casa brucia bisogna innanzitutto spegnere il fuoco (e purtroppo non è stato ancora del tutto spento se lo spread resta ancora così alto). Quindi è condivisibile quello che sta facendo il governo Monti. Ma poi? Come ricostruire la nostra casa comune? Perché se è vero che la crisi deriva anche da fattori esterni, tuttavia i nodi più seri sono tutti nostri, tutti italiani.
Prendiamo la sanità. Stato e Regioni stanno discutendo del patto per la salute e si rischia ancora una volta di parlare di dove “tagliare” o di percorrere strade – quali la centralizzazione degli acquisti – che, nei fatti, si sono dimostrate fragili, per non dire dannose per l´industria. Il vero governo della spesa si fa innovando il sistema perché sono illusorie le manovre solo finanziarie. Bisogna intervenire sui determinanti economici del sistema, affrontando i nodi dello sviluppo e dell´innovazione in sanità, coinvolgendo anche le imprese.
E infine, mi auguro che la nuova Confindustria di Giorgio Squinzi saprà dare autorevolezza a un innovativo progetto di rilancio dell´industria, rilancio che non potrà non passare anche attraverso la revisione dei grandi sistemi cardine del Paese, quale è la sanità.
La Repubblica 27.04.12