Gian Enrico Rusconi ha posto su la Stampa un problema che ci riguarda: che fine hanno fatto i movimenti che hanno risvegliato la coscienza civile dell’Italia, in particolare Se non ora quando?
Dopo il 13 febbraio, Se non ora quando non solo non è tornato a casa ma non ha neppure scelto di rimanere allo stato gassoso di movimento virtuale.
Ha deciso di non rimanere una rete senza radici e senza fisionomia, pronta solo a mobilitarsi per campagne. Ha scelto di affrontare la faticosa ed oscura via della costruzione di un movimento presente con comitati in tutt’Italia e dotato di un minimo di regole democratiche. La sclerosi, la chiusura autoreferenziale dei partiti, anche di quelli critici verso lo stato di cose esistente, sono frutto anche di una società civile disorganizzata, preda dello spontaneismo della rete e dei trascinamenti carismatici.
Fin dall’inizio al centro della nostra inedita esperienza c’è stato il legame strettissimo che abbiamo colto tra le donne e l’Italia, il destino delle une che sempre più svelava quello dell’altra. Questa è stata la nostra lettura della crisi politica, economica e morale dell’Italia e il nostro giudizio sulla pochezza delle classi dirigenti di questo paese. Avevano lasciato calpestare senza una adeguata reazione la dignità delle donne italiane anche perché lasciavano intere generazioni di donne, anche con elevata formazione e qualifiche, fuori dal mercato del lavoro, fuori dai circuiti economici e politici, scaricando nello stesso tempo su tutte le donne il peso della cura di bambini, anziani, malati, mariti o partner.
Abbiamo accolto il governo Monti, tenendo ben presente questo intreccio: abbiamo registrato infatti che per la prima volta compariva nei discorsi programmatici di un presidente del Consiglio e di suoi ministri la questione delle donne come questione nazionale, decisiva per lo sviluppo del Paese. Sembrava, sotto l’urto di una crisi non contingente, che finalmente le classi dirigenti italiane avessero compreso il significato del le richieste avanzate dalle donne riguardo al lavoro, alla maternità, ai servizi, a un welfare a loro misura, oltre che ovviamente alla presenza paritaria nelle istituzioni, al rispetto e valore della loro identità in tutte le forme di rappresentazione. Sembrava avessero compreso che l’accesso delle donne alla cittadinanza piena è vitale per arrestare la spirale regressiva e invertire la rotta. È in gioco infatti non solo la vita della metà della popolazione ma una diversa regolazione dei rapporti tra Stato, impresa e famiglie, poiché le donne sono il tramite essenziale tra produzione e riproduzione, mercato e lavoro di cura. E sulla base di questa premessa Se non ora quando è sceso di nuovo in piazza l’11 dicembre dello scorso anno.
Invece le donne sono scomparse dall’orizzonte del governo come dall’insieme del discorso pubblico, politico e mediatico. Questo, a mio parere, costituisce uno dei tratti più inquietanti e gravi della crisi in cui siamo immersi, perché se si sostiene che le donne sono il volano per avviare l’uscita dalla crisi e poi non solo non succede nulla ma si aggravano le condizioni di vita delle medesime donne (vedi allungamento dell’età pensionabile unito alla riduzione e restringimento dei servizi alle famiglie) questo vuol dire, non solo che la crisi è gravissima, ma che nessuno sa come uscirne.
Che fare allora? Esprimo opinioni del tutto personali ma credo ci sia soltanto una risposta: accrescere il grado di responsabilità politica che tocca alle donne sostenere, tanto più in presenza di una crisi di legittimazione pesantissima degli istituti democratici. Le prossime elezioni del 2013 saranno un banco di prova per dimostrare capacità di coesione di coerenza e di forza.
Per questo non mi convincono gli inviti alla formazioni di liste di donne sponsorizzate o sostenute dai movimenti, a cominciare da Se non ora quando. Si introdurrebbe un ulteriore elemento di frantumazione e si alimenterebbero rotture e competizioni tra chi sceglie le liste e chi si candida con i partiti, mentre una delle caratteristiche, anche questa non tradizionale di Se non ora quando, è stata tenere insieme, non solo donne di orientamenti culturali e politici differenti, ma anche appartenenti a partiti e non.
Piuttosto, sono propensa ad attivare una fortissima campagna di pressione su tutti i partiti, anche attraverso interventi legislativi (come si sta facendo), perché aprano le loro liste ad una massiccia presenza di donne che tra l’altro costituisce il modo più rapido ed efficace per rinnovarli e in larga misura moralizzarli (non perché le donne siano portatrici di per sé di maggiore senso etico, ma perché un loro cospicuo ingresso spezzerebbe consolidate catene di interessi, legami, anche leciti, tra affari e politica).
Non è sicuro, si dice e con qualche fondamento guardando alle esperienze del recente passato, che le elette si impegnino per davvero a sostenere politiche di genere. Ma una presenza quantitativamente rilevante cambia la qualità: è già di per sé una assicurazione. Quanto a un’istanza altra rispetto ai vertici dei partiti, «un comitato di sagge…fatto di madri e figlie della patria» di cui parla Mariella Gramaglia, nel suo intervento su la Stampa di ieri, che eserciti una specie di controllo preventivo e ponga il “bollino blu” sulle candidature, è un’idea che rischia di creare più problemi di quanti cerchi di risolverne. L’esperienza insegna che c’è sempre una donna più donna di te, più femminista di te pronta a farti l’analisi della purezza del sangue. Piuttosto si dovrebbe arrivare a stilare una sorta di programma comune, almeno per alcuni aspetti, a donne di tutti gli schieramenti, e a trovare forme e modi per far emergere nel modo più limpido e trasparente possibile le disponibilità a impegnarsi nella vita pubblica, a far emergere le candidature femminili. E soprattutto occorre una pressione forte e concentrica su tutti i partiti.
L’Unità 24.04.12