Domenica ho scritto su l’Unità del proposito governativo di abolire le autorizzazioni preventive per le nuove case nelle zone a bassa sismicità e di allentarle in quelle a medio e alto rischio. «Da rabbrividire», commentavo, in un Paese per due terzi mediamente o altamente sismico. Cosa dovremmo dire oggi, dopo la tragedia aquilana? Che non si può incentivare una ripresa edilizia “comunque” e dovunque, sfidando i vincoli paesaggistici, idrogeologici e sismici. La filosofia del piano famiglia e del piano casa (attendiamo testi definitivi) poggia sull’abbassamento dei controlli tecnico-scientifici pubblici, a cominciare dai pareri delle Soprintendenze “non più vincolanti”. Nel caso i Beni culturali riuscissero a darli in tempo, l’amministrazione locale «può procedere ugualmente al rilascio motivando specificamente sul dissenso». Incredibile. Dunque, meno controlli preventivi, tecnici e mirati, dello Stato, e più mano libera ai privati, grandi e piccoli. Una “filosofia” che il terremoto aquilano boccia inesorabilmente. Il nostro (esclusa la Sardegna e parte delle Alpi) è un Paese a rischio sismico. Ha subito almeno 30.000 fenomeni di rilievo dal 461 a.C. ad oggi e 560 terremoti «forti, fortissimi o catastrofici». Il volume, tremendamente attuale, dello scienziato Enzo Boschi e del giornalista Franco Bordieri, «Terremoti d’Italia» ha un sommario durissimo: «Il rischio sismico, l’allarme degli scienziati e l’indifferenza del potere». Di qualunque potere. Lo conferma il caso dell’Agenzia di Protezione Civile, creata dopo la legge 183 del 1989 e diretta da Franco Barberi. Non potenziata dal governo Prodi, è stata chiusa dal secondo Berlusconi: per far confluire le sue competenze sismiche nel mare magno della Protezione Civile, licenziando lo stesso Barberi e colpendo con un assurdo spoil system Roberto De Marco, responsabile del servizio sismico. Guido Bertolaso doveva essere a capo di tutto, sostenuto anche da forze del centrosinistra. Si indeboliva così una cultura specifica quanto mai utile nei drammatici frangenti che si ripetono spesso in Italia senza che nulla insegnino: per esempio che le costruzioni in cemento armato sono le più rigide e quindi le meno antisismiche (nell’Aquilano vedo in tv un ospedale di soli quindici anni sbriciolato). O che è meglio investire miliardi veri nella prevenzione antisismica, nella lotta alle frane, nel controllo delle cave, spesso abusive, e delle case non meno abusive, piuttosto che piangere dopo: nel 1970 la commissione De Marchi chiedeva 10.000 miliardi di lire, concessi in minima parte, fra il 1970 e la metà degli anni 90 ne vennero però spesi oltre 60.000 solo per tamponare le falle. Senza contare le vite umane perdute, quelle sì senza prezzo. Ma, si sa, i miliardi destinati a questi scopi non fanno “parata elettorale”.
L’Unità 07.04.09
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