Che fine hanno fatto – si chiede Gian Enrico Rusconi su La Stampa di ieri – i movimenti che hanno infiammato l’Italia nella stagione calante del berlusconismo, e in particolare «Se non ora quando?», l’ultimo in ordine di tempo, ma forse il più brillante testimone di un Paese che si trasforma e si ribella? Quando la società civile smorza la sua voce – ammonisce Rusconi – i leader vocianti dell’antipolitica prendono il sopravvento.
Berlusconi era un avversario molto comodo. Semplificava e induceva a semplificare. Bastava essere contro di lui per sentirsi nel giusto e fra i giusti. In particolare la parabola dei suoi comportamenti in materia di etica e di stile, l’improvvido miscuglio fra occasioni del potere ed esibizione dei suoi capricci, lo ha sospinto sempre più in basso. Ancora pochi mesi fa danzavamo sull’orlo del baratro della crisi economica fra «olgettine» e feste eleganti. Lorella Zanardo, con il suo bel documentario, «Il corpo delle donne», aveva capito fin dal maggio 2009 che qualcosa si era spezzato nel rapporto civile fra l’Italia, i suoi mezzi di comunicazione di massa e le cittadine.
E nel 2011, prima e dopo l’immensa manifestazione delle donne del 13 febbraio, nei talk show che hanno sostituito il discorso pubblico per mesi non si è parlato d’altro. Faceva anche audience, come sempre quando si affaccia il sesso e per sua natura crea disordine. Da tutto questo è venuta una nuova idea della dignità femminile? Non credo. Semplicemente una tregua. Tasse, denaro, disoccupazione, pensioni, premono assai di più. «Se non ora quando?» ha avuto fiducia nel governo Monti, forse anche troppa. Sembrava un sogno che le ministre fossero vere, competenti, autorevoli, che si parlasse di donne come se ne parla nell’Europa civile e non al Bar Sport. Il primo decreto del governo Monti ha mandato un segnale chiarissimo.
La parità fra i sessi non è una conquista, ma un sacrificio: l’aumento dell’età pensionabile delle lavoratrici. Ma si poteva accettare. La speranza del movimento erano i diritti delle giovani donne. Solo il trentasei per cento delle disoccupate ha perso un precedente lavoro e può accedere agli ammortizzatori sociali, per tutte le altre, che sono in cerca di prima occupazione o tornano sul mercato del lavoro dopo una maternità, doveva cambiare qualcosa. La promessa della flexsecurity avrebbe potuto ridisegnare i loro diritti, rendere sopportabile l’instabilità del lavoro. Invece, con l’eccezione della misura contro le dimissioni in bianco, un piccolo pugno di mosche: un weekend lungo per i congedi di paternità obbligatori e qualche vaucher per le baby sitter. Di qui la delusione, il consenso freddo, la fine dell’affidamento. Dunque si torna alla politica. Non all’antipolitica. Ma come?
Gli italiani che si apprestano a non votare sono un’enormità, più della popolazione del Piemonte e della Toscana messe insieme. Ma sono più donne che uomini: cinque milioni le prime, tre milioni e ottocentomila i secondi. Nella loro bolla che levita distante dalla realtà i partiti non sembrano rendersene conto. Inevitabilmente nuove formazioni saranno in campo: è auspicabile, non temibile. Tra queste è pensabile una lista delle donne che hanno animato il movimento negli ultimi anni? La parola d’ordine della trasversalità, oltre la destra e la sinistra, che ha caratterizzato Se non ora quando? Non rende facile definire un programma comune. Molte preferirebbero altro: una rivoluzione dei partiti per portare in Parlamento una percentuale di donne che con la sua forza d’urto cambi stile, etica, priorità degli eletti. Già, ma quali? Non sono mancati – e hanno fatto rumore – i personaggi desolanti. Ci vorrebbe un bollino di qualità per battezzare, con un marchio che dia loro valore, le tante giovani capaci che hanno la bella ambizione di misurarsi sulla scena pubblica.
Non lasciarle scegliere ai capi partito per i quali, soprattutto se questa resterà la legge elettorale, l’obbedienza è l’unica piccola virtù che conta. Ci vorrebbe un comitato di sagge, di garanzia, di promozione e di messa a punto di valori minimi condivisi, fatto di madri e di figlie della patria ben decise a star fuori dalla mischia e fare da allenatrici e levatrici per le altre. Perché competano, libere e non sole, nelle diverse liste. Un modello che non ha nulla di antipolitico, ma che non si arrende ai partiti perché nessuno crede più che possano davvero selezionare la classe dirigente. Un modello che potrebbe essere interessante anche per i referendari e per i movimenti giovanili.
La Stampa 21.04.12