Ha suscitato emozione e persino indignazione la sentenza della Corte di Assise d’appello di Brescia nella parte in cui, assolvendo gli imputati della strage di Piazza della Loggia, condanna i familiari delle vittime, costituiti parte civile, a pagare le spese processuali. La gravità del fatto oggetto del processo – ed anche il suo inserimento in una serie di vicende analoghe per natura e per esito processuale – spiega la reazione ed anche l’iniziativa del governo per porre rimedio a quello che è sentito come un aspetto particolarmente ingiusto della sentenza. Una prima impressione potrebbe collocare questa reazione esclusivamente sul piano delle sensibilità morali. Già, se così fosse, si tratterebbe di questione grave. Ma v’è di più. Il rispetto per le vittime (qui sono vittime i familiari di coloro che vennero uccisi) è un dovere giuridico dello Stato, che assume molte forme. Qui non si tratta di un fatto riducibile alla sua dimensione patrimoniale, ma del possibile conflitto con obblighi che lo Stato ha assunto ratificando trattati internazionali in materia di diritti umani fondamentali. Mi riferisco al Patto dei diritti civili delle Nazioni Unite e soprattutto alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Entrambi i trattati impongono agli Stati di proteggere la vita delle persone e di impedire che esse siano vittime di torture o di trattamenti inumani. E l’obbligo dello Stato si estende, dopo che fatti di quel genere si siano verificati, al dovere di svolgere indagini efficaci per identificare e punire i responsabili assicurando alle vittime la possibilità di partecipare alle indagini, esserne informate e ricevere, se possibile, adeguata soddisfazione.
Un tal obbligo, che si dice «procedurale» non per sminuirne l’importanza, ma solo per distinguerlo da quello «sostanziale» di non uccidere e non torturare, è particolarmente grave quando sia messa in discussione la responsabilità di organi dello Stato nella commissione dei fatti o nella copertura dei responsabili. Ed è questo il caso nelle vicende legate alle stragi commesse in quella che è stata chiamata la «strategia della tensione». Lo stesso discorso, riferito all’obbligo dello Stato italiano di indagare e punire, va fatto anche per quel che riguarda il comportamento di forze di polizia nella scuola Diaz a Genova. Ma di ciò occorrerà discutere quando le sentenze saranno definitive. Per ora va solo detto che contro l’Italia pende già un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. E proprio la Corte europea ha ieri pubblicato una sentenza che riguarda i diritti delle vittime. Si trattava di uno degli episodi più bui della guerra in Europa: l’uccisione di oltre 20.000 prigionieri di guerra polacchi nelle foreste di Katyn. Il 1˚ settembre del 1938 le truppe naziste invasero la Polonia. Qualche settimana prima l’accordo Molotov-Ribbentrop aveva previsto la spartizione della Polonia tra la Germania nazista e la Russia sovietica. E il 17 dello stesso mese le truppe sovietiche entrarono nel territorio polacco. Ne seguì l’annessione di parte della Polonia all’Urss e 13 milioni di polacchi divennero cittadini sovietici. 250.000 polacchi vennero presi prigionieri. Nel 1940, 21.857 di essi, in gran parte ufficiali dell’esercito, vennero uccisi per esplicito ordine di Stalin e del Politburo sovietico. La conferma di quella responsabilità è venuta dai documenti pubblicati dal governo russo dal 1990, da ammissioni dei nuovi dirigenti russi ed anche da una dichiarazione ufficiale della Duma russa nel 2010. Ma per lungo tempo le autorità sovietiche (e, al seguito, quelle comuniste polacche) attribuirono la responsabilità del massacro ai nazisti. Le indagini sulle responsabilità vennero svolte dalle autorità russe solo dopo la caduta del sistema sovietico, ma si conclusero nel nulla, con una decisione di archiviazione del 2004, di cui i familiari delle vittime ancora non hanno potuto avere conoscenza. L’indagine della Procura Militare è stata segretata e vi sono affermazioni di giudici russi che lasciano addirittura aperta l’ipotesi che questa o quella vittima sia in realtà «scomparsa».
Ad una presa di posizione di accettazione della responsabilità politica di Stalin e del partito comunista, non ha fatto seguito, rispetto alle singole vittime, un’attività concreta ed efficace di chiarimento dei fatti, offerta di tutte la informazioni possibili, ricerca dei corpi, riparazione.
L’interesse della sentenza della Corte europea (non definitiva, poiché certo sarà appellata dal governo russo) risiede nel fatto che la Corte ha ritenuto che il comportamento delle autorità russe nei confronti delle vittime (i familiari degli uccisi), ha costituito un trattamento inumano, vietato dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La Corte non ha potuto esaminare il fatto in sé della strage, né la mancanza di indagini efficaci sulle responsabilità di singole persone, poiché tutto si è svolto prima che la Russia, nel 1998, ratificasse la Convenzione. Ma in questo come in altri precedenti casi, ha affermato che l’inerzia, il distacco burocratico, la reticenza, il rifiuto di considerare le legittime richieste delle vittime costituiscono una violazione grave, «inumana» dei diritti delle vittime.
Tutte le vicende sono diverse l’una dall’altra e questa storica della strage di Katyn è difficilmente comparabile ad altre, ma le vittime e i familiari delle vittime hanno tutti, allo stesso modo, diritto ad un rispetto effettivo da parte dello Stato. Anche quelle delle stragi che hanno insanguinato per anni la politica e le vite degli italiani.
La Stampa 17.04.12