Il 3 aprile a Gela un’anziana signora si è suicidata dopo avere appreso che la sua pensione era stata ridotta da 800 a 600 euro. «Questa notizia l’ha letteralmente sconvolta. Non sapeva darsi pace perché la riteneva un’ingiustizia» hanno riferito i figli. È solo l’ultimo aggiornamento di un bollettino di suicidi per disperazione e per insopportabile umiliazione, il cui numero sta crescendo con ritmi impressionanti: decine di operai senza pane, di imprenditori senza credito, di impiegati ridotti quasi a mendicare, si gettano tra le braccia della morte. Una nullificazione fisica, esito finale di una nullificazione sociale ed esistenziale subita come un’ingiustizia sociale. Suicidi come “risposta-protesta” nei confronti di uno Stato da cui ci sente abbandonati e della vigile indifferenza di una società nella quale ogni giorno di più «ognuno è solo sul cuore della terra, trafitto da un raggio di sole, ed è subito sera».
Troppi nostri concittadini non hanno più la forza di attendere che si faccia sera “naturalmente”. Troppo insopportabile è divenuto il dolore. Tutto ciò accade mentre, come attestano le cronache giudiziarie, uno sterminato esercito di termiti continua a divorare la polpa viva della ricchezza residua della nazione, saccheggiando il denaro pubblico sotto lo scudo stellare di un’impunità garantita dallo stratificarsi di una serie di leggi che nell’ultimo ventennio hanno azzerato il rischio penale, garantendo la sistematica prescrizione di reati ormai ridotti a grida manzoniane, a tigri di carta. Il popolo dei corrotti e di coloro che abusano del potere pubblico per fini personali, sa che la gara del tempo è stata truccata a suo favore. Se proprio sei sfortunato e non riesci a raggiungere il traguardo della prescrizione, il peggio che ti possa accadere è una condanna ad una pena sospesa o all’affidamento sociale in prova, mentre continui a goderti i milioni di euro messi al sicuro nei paradisi fiscali che garantiscono una rendita vitalizia a te e alle future generazioni della tua famiglia.
Un rapporto costi-benefici assolutamente sbilanciato a favore dei benefici, che opera ormai da anni come uno straordinario moltiplicatore della corruzione. Il carcere viene riservato solo agli ultimi, a quelli che occupano i gradini più bassi della piramide sociale, come attesta la composizione sociale della popolazione carceraria. Oggi come ieri, la cifra statistica dei colletti bianchi in regime di espiazione definitiva è statisticamente irrilevante. Vale la pena di ricordare che l’approvazione parlamentare dell’indulto del maggio del 2006, dettato dall’esigenza di deflazionare le carceri sovraffollate, fu subordinata alla condizione che tra i reati indultati venissero previsti anche quelli riconducibili alla vasta fenomenologia della corruzione e dell’abuso del potere pubblico. Si trovò il modo di indultare persino il reato di scambio elettorale politico-mafioso previsto dall’articolo 416-ter del Codice penale, sebbene a quella data non vi fosse nelle carceri italiane neppure un detenuto da “sfollare” per quel reato ed i processi pendenti fossero meno di una decina in tutto il paese.
All’uscita dal carcere dell’Ucciardone, un piccolo ladruncolo graziato dall’indulto, dichiarò agli stupiti giornalisti: «Ringrazio i grandi ladri che hanno consentito ai piccoli ladri come me di uscire dal carcere». Quel che è accaduto e continua ad accadere non è più tollerabile. La statistica dei suicidi, punta visibile di un immenso iceberg di sofferenza sociale, e la statistica della corruzione sono divenute le coordinate che disegnano lo spazio di un triangolo delle Bermude che, giorno dopo giorno, continua ad inghiottire nei suoi gorghi interi pezzi della residua credibilità dello Stato e le vite di milioni di concittadini che “se vanno via”. Alcuni vanno via gettandosi nelle braccia della morte, altri vanno via non identificandosi più nella nazione, altri ancora emigrando all’estero.
È tempo di rompere gli indugi e di imprimere una brusca inversione di rotta riaffermando a tutti i livelli quel principio di responsabilità che costituisce nello stesso tempo la pietra angolare della credibilità dello Stato e l’ingrediente principale di quella imprescindibile infrastruttura dell’economia che i tecnici definiscono la «fiducia sistemica». Rinviare ancora o rassegnarsi a patteggiate soluzioni minimaliste, significa scivolare sempre di più lungo quella stessa china che ha portato al suicidio la democrazia greca, come nel giugno 2010 preannunciò, lucidamente e vanamente, Alexis Papahelas, direttore del quotidiano Kathimerini: «Le misure di austerità, inevitabili e necessarie sono irrealizzabili senza una democrazia funzionante e una classe politica incorrotta. Ambedue le cose mancano in Grecia, a causa di una storia postbellica caratterizzata da profonda sfiducia nello Stato e da una cultura della legalità inesistente».
Procuratore generale presso la Corte d’appello di Caltanissetta
Il Sole 24 Ore 08.04.12
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