E meno male che non si usano più i papiri, le pergamene di pelle di capra, le tavolette di cera o il calamaio! I membri d’una commissione universitaria, esasperati, l’hanno scritto nell’incipit di uno sterminato verbale di 67 pagine: non ha senso «copiare manualmente le centinaia di titoli e pubblicazioni prodotte». Per non dire del resto…
La commissione, composta dai professori Lucio Pegoraro, Roberto Toniatti e Laura Montanari, doveva scegliere il vincitore per un posto di ricercatore di ruolo in Diritto pubblico comparato alla facoltà di Giurisprudenza di Bologna. I candidati erano 10, scesi poi a sette. E a mano a mano che la procedura si rivelava in tutta la sua insulsa macchinosità burocratica, Pegoraro, ordinario di Diritto pubblico nell’ateneo felsineo e «profesor afiliado alla Universidad Autónoma de Nuevo León», in Messico, ribolliva di stizza.
«Mesi fa», racconta, «ero commissario per un posto di professore alla Sorbona. Commissione internazionale. Primo incontro in videoconferenza per scambiarci le idee, poi riunione a Parigi coi candidati. Un giorno ad ascoltare le lezioni di 45 minuti di ogni aspirante docente. Discussione tra noi, un membro incaricato di stendere il giudizio, comunicazione informatica, accettazione e nomina. A parte, gli amministrativi trattavano il compenso e la disponibilità offerta dai candidati. C’era gente di quattro o cinque Paesi diversi sia tra i commissari sia fra i candidati. Ha vinto il migliore. Lunghezza del verbale: una pagina. Non so se mi spiego: una».
In Italia no, a forza di semplificare (ricordate l’ipocrisia sbruffona dei ministri alla Semplificazione che bruciavano scatoloni pieni di leggi?) le cose si sono fatte ancora più complicate. Per un concorso per un posto da 1.500 euro al mese, accusa il docente, la legge Gelmini prevede che: «Dopo una riunione di insediamento che può essere (serve l’autorizzazione, però) telematica, la commissione deve riunirsi fisicamente nella sede del bando. Col richiamo a Bari, per dire, di un commissario di Torino o a Trieste di uno di Catania. In quella sede deve «aprire i plichi» dei candidati (segretissimi fino all’ultimo, anche se è materiale pubblico) e valutarli. Poi fare una prova orale e decidere. Di fatto: due o tre persone devono prendere il treno o l’aereo, andare in trasferta, leggere tutto, scrivere i giudizi e infine decidere e mettere a verbale…».
Un incubo: «All’ultimo concorso che ho presieduto il verbale era di 112 pagine: centododici!». Totale: oltre 35mila parole. Tanto per capirci: nove volte più di quelle servite (3.786) a Giovanni XXIII per aprire il concilio ecumenico Vaticano II. O, se volete, tre volte e mezzo quelle necessarie (10.668) a Karl Marx e Friedrich Engels per scrivere il Manifesto del partito comunista. Un delirio inferiore solo alla commemorazione (45.439 parole!) letta dal leader albanese Enver Hoxha per il centenario della nascita di Josip Stalin. Un diluvio retorico che andò avanti per oltre sette ore.
Ci vuole un sacco di tempo, per leggere «sul posto» le pubblicazioni di decine di candidati (per un concorso a Bologna se ne sono presentati recentemente oltre 70) ma non basta: «I commissari devono fare una valutazione “analitica” anche sui titoli non scientifici. Ad esempio, scrivo che mi sono diplomato nel liceo Tale con 44/60: è obbligatorio un giudizio anche su questo. Nell’ultimo concorso che ho presieduto, ho dovuto valutare circa 500 titoli, tra i quali quello di “toga d’oro” del Tribunale di Rimini o la partecipazione al convegno XY. Ci sono candidati che presentano elenchi di 50 partecipazioni passive a convegni. Che significa? Che ti sei seduto su una sedia in fondo e sei rimasto lì tre ore? Che valore può avere? Eppure dobbiamo copiarli tutti nel verbale, dato che vengono depositati in cartaceo (anche se poi c’è l’obbligo di fare il verbale elettronico) e scrivere: “bravo, bene, male, non interessante” su tutti. Anche se fosse il certificato di cresima. La valutazione analitica dei titoli non scientifici è una follia. Quanto a quelli cosiddetti “scientifici”… Cosa posso scrivere di uno che manda come titolo autonomo una cronaca di 18 righe sulle elezioni in Zimbabwe?». Si dirà: tutto necessario per smantellare finalmente il sistema dei concorsi farlocchi. No, aveva ragione Montesquieu: «Le leggi inutili indeboliscono le leggi necessarie».
Risultato finale: spese assurde per le casse pubbliche. Perdita abnorme di tempo. Lezioni cancellate perché il docente è in trasferta magari dall’altra parte dell’Italia per fare una valutazione che in un Paese occidentale potrebbe essere fatta online. E tutto, dato che non è facile far coincidere gli impegni di tutti, si trascina per settimane, per mesi, per anni…
Così, un giorno che proprio non ne potevano più, quei tre commissari hanno messo la loro insofferenza a verbale: «Preliminarmente, la Commissione esprime il proprio disappunto e la propria indignazione per l’assurdità dei nuovi criteri concorsuali. Essi costringono i commissari a copiare manualmente le centinaia di titoli e pubblicazioni prodotte, le quali non sono corredate da supporti informatici; a ricercare nelle biblioteche le pubblicazioni non inviate personalmente dai candidati, oppure a fotocopiare le stesse e riportarle nelle sedi di provenienza per poterle leggere, oppure al medesimo fine a soggiornare per giorni nella sede di concorso, con gravi oneri per l’erario e in spregio ai principi di buon andamento, efficienza ed efficacia della pubblica amministrazione».
«La Commissione reputa inoltre priva di ogni senso logico la valutazione analitica dei titoli e delle pubblicazioni, atteso che i candidati presentano decine di titoli irrilevanti ai fini delle procedure concorsuali, sui quali nulla c’è da dire (es.: maturità classica, o partecipazione “passiva” a un convegno, o membro di una associazione), e pubblicazioni di poche righe, come cronache o simili, che assumono un senso per la valutazione dei candidati solo in un contesto complessivo, ma su tutti i quali ciascun commissario deve scrivere un giudizio completo e la commissione redigere un giudizio collegiale».
«Infine, ritiene incomprensibili le ragioni per cui i colloqui debbano svolgersi sui titoli (“Ci racconti di quella volta che è stato a un convegno a Teramo?”), e non sulle pubblicazioni. Stabilisce di inserire a verbale la presente dichiarazione». Domanda: qualcuno la prenderà sul serio?
Il Corriere della Sera 08.04.12