Rispetto alla vecchia Ici, che dall’ultimo governo Prodi in poi sulla prima casa non si pagava più, la nuova Imu sarà molto più pesante. Perché, aliquote a parte, è la base di calcolo della nuova «Imposta municipale unica» ad essere molto più alta visto che oltre all’Ici incorpora tassa rifiuti ed imposte sui servizi erogati dal Comune. In media il 60% in più per quasi tutte le tipologie di fabbricati, abitazioni o immobili commerciali che siano.
Poi le singole amministrazioni, che possono calibrare a loro piacere le aliquote (partendo dai minimi previsti dal governo, il 4 per mille sulla prima casa ed il 7,6 per mille per le seconde case) ci mettono del loro e la stangata, fatte salve alcune eccezioni, può essere anche molto più pesante.
In base alle elaborazioni fatte per La Stampa dal Sunia, il sindacato inquilini della Cgil, si può arrivare anche ad un raddoppio rispetto alla vecchia imposta, come nel caso di Torino, sino ad un +239% (casa sfitta a Milano) e addirittura un +7-800% per gli alloggi affittati con canoni concordati a Genova.
Tra le grandi città, anche per effetto della detrazione base di 200 euro (che sale poi a 400 per le famiglie più numerose), solo Bologna e Firenze ed in parte Palermo riescono a far pagare meno dell’imposta precedente. Per tutti gli altri son dolori.
Anche questi sono aumenti un poco «rozzi», per usare la definizione dell’altro giorno del presidente del Consiglio. Che però ancora una volta segnalano lo stato, o meglio il cattivo stato, delle nostre finanze. Sia quelle nazionali, visto che lo Stato centrale incamererà più o meno la metà del gettito, sia quelle locali, visto che tanto più i Comuni sono in difficoltà a far quadrare i loro bilanci tanto più sono indotti a tassare le case.
Certo questo è un modo sbagliato di far partire sul serio il federalismo fiscale. Perché è chiaro che se i sindaci ci devono mettere la faccia fissando loro le aliquote e poi il grosso degli incassi finisce a Roma cade il primo presupposto del principio di un sistema federale, quello del legame tra tassazione, qualità e quantità dei servizi erogati e responsabilità delle scelte. Sostengono non a torto i sindaci che siccome una buona parte dell’imposta la incasserà lo Stato e non i Comuni, le amministrazioni locali per ottenere lo stesso gettito fiscale che avevano in precedenza non potranno che aumentare le aliquote. E questo al solo scopo di assicurarsi le stesse risorse impiegate fino ad oggi per erogare i servizi fondamentali. Col paradosso che qualora decidessero di spingere ancor di più il pedale sull’acceleratore, comunque una fetta dei maggior introiti finirebbe sempre allo Stato.
E’ evidente che in tutto questo c’è qualcosa che non funziona. E che forse anche prima della fine dell’emergenza finanziaria, occorrerà in qualche modo riequilibrare.
Altri problemi in vista sono quelli pratici, operativi. Come pagare? E soprattutto quando? Qui per i cittadini-contribuenti si profilano altri guai, visto che i tempi tendono a slittare (i Comuni hanno tempo sino al 30 giugno per approvare i loro bilanci e quindi fissare le aliquote, ma c’è il rischio che passi anche uno slittamento al 30 settembre), mentre la scadenza della prima rata resta ferma al 16 giugno (il 16 dicembre si pagherà il saldo). E’ evidente non solo che la definizione delle pratiche e soprattutto i conteggi non potranno essere fatti contestualmente all’ elaborazione dei 730 come avveniva in passato, ma che si rischia il caos. Proprio ieri la Consulta dei Caf, i centri di assistenza fiscale, hanno sollevato la questione segnalando che inevitabilmente i contribuenti dovranno duplicare file e pratiche, e chiedendo al governo che almeno la prima rata venga calcolata sulle aliquote minime. Se c’è da pagare, e tanto si dovrà pagare, almeno che al cittadino venga eliminato questa ulteriore ragione di stress e di perdita di tempo.
La Stampa 02.04.12