«Domenica comincerà la primavera dell’Italia». Un Paese che va «amato, e non usato». A Roma, Walter Veltroni chiude la campagna elettorale del Partito Democratico con un messaggio di speranza e un forte appello al voto. Anzi, tre. Agli elettori “storici” del centrodestra che vivono con disagio al pensiero di un altro quinquennio con Berlusconi, ai possibili astensionisti, perché «chi si astiene finisce sempre per favorire lo schieramento che gli è più lontano». E agli elettori della Sinistra Arcobaleno, perché certo «ogni voto è utile, ma ora il confronto per la leadership del Paese è fra il Pd e la destra».
Un triplice appello per provare a cavalcare l’onda della rimonta. Veltroni crede nella vittoria: «Sono ottimista – dice – il cambiamento si può fare». Se la partita si giocasse nelle piazze romane, non ci sarebbe storia. Alla «sparuta assemblea di pochi intimi» riunita giovedì pomeriggio al Colosseo per ascoltare Berlusconi e Fini, risponde una piazza del Popolo gremita come non mai. Ad ascoltare il leader del Pd, decine di migliaia di persone, centocinquantamila, secondo gli organizzatori. Sicuramente la più imponente chiusura di campagna elettorale che si ricordi, a Roma, da molte legislature a questa parte.
Ma la partita, più che sui numeri, si gioca sulle emozioni. E in piazza del Popolo, nonostante la pioggerellina che va e viene per tutto il pomeriggio, le emozioni sono forti. Sul palco tanti volti noti: da Gigi Proietti a Pippo Baudo, ma soprattutto Jovanotti, l’autore della canzone divenuta ormai un inno, «Mi fido di te».
Veltroni si affida a quattro lettere per raccontare l’Italia del Partito Democratico. Quattro lettere che accompagnano dall’inizio alla fine il suo lungo discorso. La lettera di un ragazzo straniero che sogna di diventare italiano, l’ultima lettera di Paolo Borsellino, poche ore prima dell’attentato di via D’Amelio, la lettera ricevuta solo pochi giorni fa da una studentessa. E poi la lettera di Giulia, la stessa con cui Veltroni chiuse, commuovendosi, il primo discorso da aspirante leader del Pd, lo scorso giugno, al Lingotto di Torino. Giulia Songini, una ragazza romana scomparsa a marzo del 2006, che poco prima di morire scriveva ai genitori: «ll dolore e la malattia possono essere più tollerabili della fame e gli stenti, soprattutto perché io ho un mondo che mi è vicino e molti bambini in Africa non hanno altro che la mancanza di tutto».
Alla fine del suo viaggio attraverso l’Italia è ancora nelle parole di Giulia che Veltroni cerca il senso più profondo del suo messaggio politico. Nella lettera con cui Giulia, nel suo ultimo Natale, regala ai genitori un’adozione a distanza: il pensiero «dell’altro». Al Paese, il leader del Pd chiede di «voltare pagina: basta con il passato». Mantiene ferma, fino all’ultimo istante della sua campagna elettorale, la consegna che si era dato: il nome di Berlusconi dalla sua bocca non esce mai. Continua a chiamarlo «il principale esponente dello schieramento avversario». «Non faccio quel nome – spiega – perché voglio uscire da un quindicennio ed entrare in una stagione nuova». E quando molti, nella folla, fischiano il nome di George Bush, Veltroni li interrompe, trasformando i fischi in applausi: «Noi – ribadisce – siamo la parte civile della vita politica italiana».
Applausi, e non fischi, accompagnano il candidato premier dei democratici quando attacca duramente «il principale esponente» e Marcello Dell’Utri per aver definito Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore condannato all’ergastolo per mafia, come «un eroe». «Che diavolo d’insegnamento è per i nostri figli se un candidato alla presidenza del consiglio definisce un uomo accusato di reati tanto gravi come un eroe?», si chiede Veltroni.
Lo aveva detto: nell’ultima giornata di campagna elettorale nessun annuncio a sorpresa. E così è stato. Il leader del Partito Democratico si limita a mettere in fila le tante proposte avanzate nel corso di queste settimane. Una priorità su tutte: la lotta al precariato, con l’approvazione, fin dal primo consiglio dei ministri, della proposta di legge sul compenso minimo legale.
Ma il tasto su cui Veltroni batte e ribatte è emotivo: «L’orgoglio di essere italiani», come dice lui stesso. Il senso di unità nazionale. In una regione e in una città, come Roma, forse decisive per stabilire la maggioranza del prossimo Senato, questo è un argomento fondamentale. Perché a determinare gli equilibri della coalizione di destra sarà la Lega, una forza «che vuole la secessione e non si riconosce nella Costituzione, nel Tricolore e nell’Inno di Mameli». Infine una promessa. Quasi scontata, dopo tutto quello che è stato detto. Quale che sia il risultato delle urne «non ci sarà un governo di larghe intese». Legalità e precariato valgano ad esempio: i programmi del Pd e del Pdl sono radicalmente «alternativi».
Giovanni Visone, l’Unità.it