In Afghanistan un altro soldato italiano è stato ucciso e cinque sono rimasti feriti. In un intervento così difficile bisogna sempre mettere in conto la perdita di vite umane, ma l’aumento esponenziale dei morti, si lega ad una situazione sul campo sempre più confusa, per non dire drammatica. L’Afghanistan a undici anni dall’inizio dell’intervento internazionale, rimane un luogo insicuro e dai precari equilibri. Fin dall’inizio la presenza della coalizione si è caratterizzata per una divisione patente tra gli obbiettivi dell’Isaf, tesa a garantire sicurezza alla popolazione e creare nuove istituzioni democratiche e gli americani concentrati alla lotta al terrorismo.
Questi obbiettivi diversi hanno creato negli anni contraddizioni, sprechi e inefficienze. Ad oggi l’economia afghana è ancora dipendente dagli aiuti internazionali, il sistema politico è arcaico, l’apparato amministrativo è inefficiente e corrotto e il mercato dell’oppio copre oramai il 90 % della produzione mondiale. Ogni anno se ne volano indisturbati a Dubai più di 4 miliardi e mezzo di dollari, più o meno pari al Pil annuale dell’intero Paese. Nessuno, neanche gli americani, sono riusciti a trovare un’alternativa a Karzai, uomo sicuramente abile, ma poco affidabile. Negli anni i suoi parenti hanno tutti assunto posizioni di potere e lo stesso processo di riconciliazione con i talebani è stato sfruttato dal Presidente per rafforzare la sua forza elettorale e le alleanze con il suo clan.
Negli ultimi anni sono aumentati drasticamente gli attacchi kamikaze e le lo scoppio di ordigni improvvisati, con un conseguente aumento dei morti tra i militari e i civili. Sempre più spesso sono gli stessi militari afghani a sparare
sugli alleati internazionali. Nel 2009 finalmente il generale Patreus si è impegnato assieme alla Nato, in una nuova strategia di contro insurrezione, focalizzata sulla protezione della popolazione civile nelle aree del sud ancora in mano ai talebani, per conquistarne «il cuore e le menti». Questo cambiamento non sembra aver portato a chiari risultati positivi. I gruppi talebani, per quanto divisi, sono ancora attivi e trovano protezione in Pakistan, dove gli americani hanno intensificato la loro attività di bombardamento con i droni, creando un ondata di anti americanismo tra la popolazione pakistana.
A complicare la situazione sono intervenuti gli incredibili casi delle copie del corano bruciate in una caserma americana e la strage del soldato americano a Kandahar, con l’uccisione di 17 tra donne e bambini. Nonostante le rassicurazioni ufficiali, il grado di popolarità delle truppe straniere tra la popolazione è sempre più bassa. In questa quadro la coalizione ha già da tempo annunciato i tempi di un ritiro a partire dal 2014.
Obama sembra accontentarsi dell’uccisione di Bin Laden. Ma le condizioni per un passaggio di poteri alle istituzioni locali, anche se progressivo, sembra problematico. C’è chi suggerisce una linea diversa della coalizione, un comprehensive approach che non indichi date di ritiro, e si concentri sul miglioramento dello Stato di diritto, di quello giudiziario e di quello istituzionale e politico, insistendo su una maggiore coordinazione delle forze internazionali e un atteggiamento più rigoroso nei confronti di Karzai.
Ma i governi occidentali e le loro opinioni pubbliche hanno fretta di andarsene e sono stanche di una guerra che non sembra mai finire.
L’Unità 25.03.12