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«Se il governo cede al ricatto di Berlusconi», di Francesco Cundari

Di fronte al moltiplicarsi dei segnali che annunciano il cedimento del governo Monti al ricatto berlusconiano su giustizia, tv e informazione, come conferma per la sua parte anche l’intervista del ministro Passera sul Sole 24 ore di ieri, la prima impressione è che non ci sia voluto poi molto.
Considerando la fermezza dimostrata dall’esecutivo con lavoratori e pensionati, si stenta a credere che al Pdl sia bastato così poco: un vertice a Palazzo Chigi annullato, una lettera di protesta un po’ minacciosa per la battuta fuori luogo di un ministro, qualche facile affondo sulla tecnica imperizia dimostrata dal governo nelle gravi vicende indiane e nigeriane. Appena due o tre giorni di tensione in tutto. Ai tassisti, per dire, ne sono occorsi molti di più.
La seconda impressione suscitata da questa vicenda è che il governo Monti stia incorrendo in un drammatico errore di sottovalutazione dei problemi politici. Una tendenza che appare piuttosto spiccata in gran parte della compagine ministeriale, e che temiamo sia alla radice di molti dei più gravi infortuni di questi mesi.
Sembra quasi che a Palazzo Chigi non appaia chiaro il significato del messaggio che lo stesso governo si appresta a inviare a tutti gli italiani, ritirandosi ufficialmente dal campo delle riforme della Rai e della giustizia. Ma quel messaggio apparirà chiarissimo al Paese: il governo Monti riconosce che in materia di giustizia, tv e informazione, ancora oggi, l’ultima parola spetta a Silvio Berlusconi. Riconosce cioè che gli interessi personali del padrone di Mediaset, che li ha sempre anteposti non solo all’interesse nazionale, ma persino all’interesse di partito e di coalizione, non sono meno vincolanti per il governo dei tecnici. In altre parole, che non è cambiato niente. O che è cambiato poco. E di sicuro, comunque, non abbastanza.
Più in generale, da tutte le diverse vicende che negli ultimi giorni hanno reso più difficile la navigazione del governo sembra venire una lezione sulle competenze della politica, nel duplice significato di ciò che alla politica compete e di ciò di cui il fare politica consiste.
In questi anni una cattiva propaganda ha accreditato invece l’idea di un’inconsistenza dei problemi politici in quanto tali, puntando a corrodere il vincolo della rappresentanza agli occhi dei cittadini, per affermare la necessità di una soluzione oligarchica alla crisi italiana. È la stessa cattiva propaganda che vent’anni fa ha spianato la strada alla discesa in campo del Cavaliere. Ma prima o poi la realtà s’incarica sempre di smentire queste rappresentazioni di comodo, e così oggi presenta al Paese il conto drammatico dei suoi problemi irrisolti. Il primato degli interessi personali di Berlusconi su ogni altra esigenza non è l’ultimo di tali problemi, ed è anzi il vero “vincolo esterno” che ci ha tenuti bloccati nell’infuriare della crisi, mentre tutto precipitava intorno a noi. Peccato che ora gli stessi commentatori che hanno passato gli ultimi quindici anni ad accusare il centrosinistra di non aver fatto la legge sul conflitto di interessi, come fosse cosa facilissima, contestano persino la semplice richiesta del Pd che non sia ancora il conflitto d’interessi a dettare le leggi in materia di giustizia e informazione.
Nel pieno della trattativa sul mercato del lavoro, non c’è bisogno di una spiccata sensibilità politica per prevedere il corto circuito che il governo Monti rischia di innescare. Solo degli agitatori accecati dai propri pregiudizi potrebbero consigliare al presidente del Consiglio di varare una riforma che renda più facile il licenziamento dei lavoratori, contro i sindacati e contro tutti i partiti del centrosinistra, e contemporaneamente spiegare che bisogna andarci piano con le norme anticorruzione, o sull’asta delle frequenze, o sul controllo della Rai, per non fare arrabbiare il miliardario di Arcore. Chiunque abbia a cuore le sorti del governo Monti dovrebbe metterlo in guardia da un simile pericolo, per il suo bene e per il nostro. Vogliamo sperare ancora che non ceda al ricatto.

da L’Unità

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«Rai, la riforma non s’ha da fare. Il Pd attacca: noi non ci stiamo», di Natalia Lombardo
Il governo ha ceduto al veto del Pdl e di Berlusconi, archiviando la riforma della governance Rai, pur annunciata da Monti a gennaio. Ma il Pd non fa marcia indietro e non intende partecipare alle nomine del Cda

La pietra tombale su una riforma della Rai che possa allentare la dipendenza dei partiti l’ha posta Corrado Passera: «Alle nomine del nuovo consiglio, essendo tra un mese, si arriverà con la governance attuale», perché, spiega il ministro dello Sviluppo al Sole24ore di ieri, «non ci sono né i tempi, né i modi» per cambiare i criteri di nomina dei vertici secondo la legge Gasparri.
Il Cda di viale Mazzini scade il 28 marzo, ma può reggere per l’ordinaria amministrazione fino all’approvazione del bilancio entro giugno (che però il governo sembra voglia accelerare). L’ipotesi di una proroga sarebbe la (non) soluzione più facile ma meno dignitosa, tanto più dopo le dimissioni di Rizzo Nervo.
LE MINACCE
Se Monti emanasse un decreto, questo dovrebbe essere poi convertito in legge dal Parlamento, e il premier non ha alcuna intenzione di rischiare tensioni a causa del cavallo di viale Mazzini. Cede così al ricatto di Berlusconi, del Pdl e della Lega (che sulla Rai ragiona come vecchia maggioranza): la materia televisione deve essere un tabù anche per il governo dei «tecnici».
Le parole di Passera confermano la sostanziale marcia indietro, perché la «pratica Rai» era sul tavolo di Palazzo Chigi, studiata solo dal ministro e dal premier, almeno per una mini-riforma che riducesse il consiglio a 5. La brusca frenata si è materializzata col rifiuto di Alfano a partecipare al vertice con Bersani e Casini la settimana scorsa, in parallelo con le minacce di licenziamenti poste dal presidente Mediaset Confalonieri sull’ asta delle frequenze.
Eppure Mario Monti l’8 gennaio a Chetempochefa di Fabio Fazio annunciò modifiche alla governance: «La Rai è una forza nel panorama culturale e civile italiano, una forza che credo abbia bisogno di ulteriori
passi in avanti. Mi dia ancora qualche settimana e vedrà». Parole incoraggianti per il presidente Rai, Paolo Garimberti, che il 6 dicembre nell’anticamera di Porta a Porta aveva sollecitato al premier l’urgenza di cambiare le regole di un’azienda ingovernabile. Monti era interessato, infatti poi tra i due ci fu un incontro istituzionale a Palazzo Chigi il 14 febbraio.
Una bolla di sapone. La situazione però si sta incartando. Il segretario Pd, Pier Luigi Bersani non fa passi indietro rispetto al proposito di non partecipare alle nomine con i criteri della Gasparri: «Da più di un anno chiediamo di discutere della governance Rai in Parlamento», commenta Matteo Orfini, responsabile cultura e informazione del Pd, che ricorda come la proposta democratica potrebbe «trovare rapidissima approvazione» se fosse posta su una delle possibili «corsie preferenziali» in commissione, se «non si vuole subire il veto e l’ostruzionismo del Pdl».
Se invece non cambierà nulla «non parteciperemo» alle nomine in commissione di Vigilanza, è la linea del Pd che punta, come si dice, a far esplodere le contraddizioni in seno al governo se davvero venisse fuori un Cda monocolore votato da Pdl e Lega (che pure è all’opposizione e Maroni reclama la presidenza Rai).
Vista la barriera che il Pdl ha piazzato su un qualunque cambiamento delle regole, Monti si sarebbe convinto che è più facile cambiare i nomi, puntando così a figure a cui fare riferimento a viale Mazzini (si parla di Claudio Cappon, Giancarlo Leone si tira sempre fuori, tornano i nome di Mieli o Anselmi per la presidenza).
I NUMERI IN VIGILANZA
Il Tesoro, in quanto azionista, nomina un consigliere (ora è Petroni), e indica il direttore generale (votato dal Cda) e il presidente, la cui nomina dopo il sì del consiglio deve avere il parere favorevole dalla maggioranza dei due terzi della Vigilanza, per la legge Gasparri. E qui si vedranno le mosse del Terzo Polo, perché ormai anche a Palazzo San Macuto la maggioranza non c’è, i numeri sono 20 a 20 tra Pdl, Lega e cespugli da una parte, e Pd (11), Idv (2) e i 5 del Terzo Polo (Udc, Fli, Api) dall’altra. Se a tirarsi fuori fossero solo il Pd e l’Idv si arriverebbe a 13, quindi i due terzi (2627 voti) ci sarebbero per un presidente «zoppo». Senza i voti del Terzo Polo il rinnovo salterebbe.
Con un simile Cda «la responsabilità sarebbe del governo», prosegue Orfini, «e non può essere indifferente, perché la vita della tv pubblica interessa ai cittadini, e già il non fare nulla è occuparsi di Rai». Insomma, forse Monti pensa che il Pd non arrivi fino in fondo, ma per Bersani è un punto di principio irrinunciabile. Lo è anche per Berlusconi, il cui conflitto di interessi pesa sempre come un macigno. Sulle frequenze tv Passera ha ripetuto che non vuole «cedere a titolo gratuito» beni dello Stato, ma forse più che aprire il mercato tv un’eventuale asta sarà allargata al mondo delle telecomunicazioni «nei prossimi 3-5 anni». «Certo sembrano più rispettosi di Mediaset di quanto non lo siano stati con i pensionati», commenta Orfini.

da L’Unità