Finché riesci nel tuo intento, non seguire le regole può anche andar bene. Ma quando un’operazione fallisce, specialmente se si tratta di un’operazione militare che mette a repentaglio delle vite, allora la colpa ti ricadrà inevitabilmente addosso. E doppiamente: per il fallimento dell’operazione in sé, e per la violazione delle regole.
Da un punto di vista eminentemente tattico, il tentativo di salvare Lamolinara e McManus – gli ostaggi italiani e britannici nella Nigeria del nord – è chiaramente risultato un fiasco.
Se la ricostruzione di una sparatoria durata sette ore tra rapitori e liberatori verrà confermata, allora c’erano ben poche possibilità che gli ostaggi ne uscissero vivi.
Fosse andato tutto per il meglio, è ipotizzabile che gli italiani avrebbero quanto meno lamentato l’esser stati tenuti all’oscuro del piano, ma il fatto sarebbe passato in secondo piano rispetto alla liberazione degli ostaggi.
Invece, con due uomini morti, la polemica fra i due paesi si fa seria.
E quell’assenza di comunicazioni fra la Farnesina e il Foreign Office nei nove mesi dal loro rapimento pare inconcepibile. Se è così, allora il biasimo ricade su ambo le parti. Ma è anche possibile che i servizi segreti e le forze speciali dei due paesi non stessero cooperando appieno.
C’è da dire che innanzitutto le spie tendono a diffidare dal condividere informazioni con chiunque, anche quando si tratta di alleati stretti.
Allo stesso modo le forze speciali esitano a organizzare operazioni congiunte laddove siano necessari un alto livello di fiducia e di coordinamento.
Sia in Iraq che in Afghanistan si sono verificati casi di rapimento durante i quali le forze speciali e i servizi segreti italiani sono stati accusati di aver pagato il riscatto per gli ostaggi, o di aver stretto qualche tipo di accordo sottobanco con i signori della guerra locali. Che questa sia o no la verità, simili accuse potrebbero facilmente aver dissuaso l’intelligence e le forze speciali britanniche dall’aprirsi alle loro controparti italiane, e questo soprattutto nel contesto nigeriano, dove le diverse fazioni in gioco rendono le operazioni segrete particolarmente ardue.
La distanza politica, invece, è meno facile da spiegare. Nella dichiarazione di Cameron salta agli occhi l’aver ignorato il ruolo dell’Italia.
Al momento del rapimento, infatti, ha detto: «Stiamo lavorando con le autorità nigeriane». Non con le autorità italiane e nigeriane. Ancora: la decisione di organizzare l’operazione è stata presa «in accordo con le autorità nigeriane», non con le autorità italiane e nigeriane.
Era come se il governo italiano fosse irrilevante nel decidere il destino di un cittadino italiano. Vero è che la Gran Bretagna ha legami molto più stretti con la Nigeria che con l’Italia, legami della politica, delle forze di polizia e militari risalenti in parte al passato coloniale, ma soprattutto dovuti all’attuale cooperazione nella lotta al crimine organizzato e nella prevenzione al terrorismo, nonché a legami umani e commerciali tra i due paesi.
Gran Bretagna e Francia tutt’oggi considerano l’Africa occidentale una propria responsabilità, e i loro interventi militari in Sierra Leone e Costa d’Avorio nell’ultimo decennio sono stati considerati un successo, legale e apprezzato. Nulla di tutto ciò, tuttavia, giustifica l’aver ignorato un partner e alleato europeo. Cioè l’aver ignorato l’Italia. Così come è successo con le autorità indiane, che hanno arrestato i due marò italiani in un modo che è probabilmente illegale, dato che quasi certamente non avrebbero l’autorità per investigare un crimine commesso in acque internazionali. Insomma, due schiaffi in faccia nel giro di una settimana.
Cosa che, nell’opinione di chi scrive, evidenzia due punti.
Il primo è la prolungata condizione di debolezza dell’Italia in politica estera. Il suo status e il suo prestigio sono sempre stati inferiori a ciò che la sua mole e le sue risorse dovrebbero garantirle. Tante sono le ragioni per questo suo farsi “peso piuma”. Le intemperanze di Berlusconi, di recente; la debolezza strutturale dei governi Prodi; e ancor prima l’ambiguità italiana, ciò che Sergio Romano ha definito «l’ansia di partecipare e il desiderio di eludere le regole della partecipazione». La ritrovata sicurezza di sé generata da Monti e Napolitano non basta a mutarne la percezione.
Il punto successivo è che, ancora una volta, la speranza di dotarsi di una politica estera comune europea è più lontana che mai dal concretizzarsi.
da Europa Quotidiano 10.03.12