Il barometro della trattativa sul mercato del lavoro continua a oscillare, a volte volge al bello, altre in direzione contraria. Il governo aveva ventilato, in alcune occasioni, che non fosse indispensabile arrivare a una intesa con le parti sociali. E questo aveva fatto suscitare più di qualche interrogativo. Ci avevano insegnato (ricordate lo “scambio politico”) che è interesse fondante dei governi pervenire ad accordi con le parti sociali (che usavamo chiamare di concertazione): specie se si tratta di governi tecnici e dall’incerta base parlamentare, come è l’attuale. L’intesa era una necessità se essi volevano davvero allargare il loro consenso sociale (o neutralizzare potenziali conflitti).
In realtà queste indicazioni di “scuola” hanno subìto nel corso degli ultimi anni alcuni slittamenti, in ragione del prevalere (qualche volta anche nel centrosinistra) di una lettura liberista – molto discutibile – del rapporto con le organizzazioni sociali, in primo luogo i sindacati. Questa lettura porta a ritenere preferibile, alla strada dell’accordo, quella della decisione dirigista o dell’assecondamento della spontaneità del mercato. In questa ottica queste due modalità – decreto e mercato – sarebbero migliori perché più rapide ed efficaci.
Nella fase attuale a supporto di queste tesi vengono addotte le meraviglie prodotte dalle decisioni unilaterali adottate dal governo spagnolo (di destra) su queste materie. In realtà, finora queste meraviglie si traducono in due risultati certi: una minore protezione per i lavoratori (ed un ulteriore indebolimento dei sindacati); una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, che era già il più flessibile fra quelli dell’Europa occidentale. Restano incerti, e tutti da verificare, gli altri risultati che vengono propagandati: l’aumento quantitativo di opportunità occupazionali e la possibilità qualitativa di transitare più velocemente verso gli impieghi stabili.
Intorno al nodo del lavoro continuano dunque a circolare due stereotipi che vanno criticati e rovesciati con soluzioni pratiche meglio congegnate. Il primo è che vada accresciuta la flessibilità del mercato del lavoro come condizione della sua espansione. Questo principio-guida è stato già applicato per tutto il decennio, e senza successo: la legge 30, che lo aveva incarnato, non è più considerata un toccasana.
Non è casuale – e dovrebbe essere oggetto di riflessione – che oggi neppure gli sponsor di destra della flessibilità la evochino come la panacea per i mali del mercato del lavoro. Il tema che oggi dovrebbe essere al centro della discussione è piuttosto un altro: quello di come regolare la flessibilità, in modo da rendere più agevole il passaggio dei lavoratori discontinui all’ occupazione stabile e in modo da ridurre il costo sociale della flessibilità e della precarietà.
L’enfatizzazione fin qui assegnata alla revisione dell’articolo 18 sembra del tutto fuori tema e comunque sproporzionata rispetto al fine che si dovrebbe davvero promuovere: una stabilità ridisegnata, anche se senza le rigidità del periodo fordista (peraltro ormai sbiadite), e con una decisa semplificazione del paniere dei contratti di impiego.
Il secondo aspetto riguarda i caratteri e gli esiti degli incontri in corso tra governo e parti sociali. A tale riguardo le pulsioni dirigiste – decidere senza accordo e senza dare vita a una vera trattativa – vengono variamente alimentate, anche in virtù dell’alibi ricorrente costituito dal vincolo europeo. Ma anche in questo caso sembra più opportuno dare vita a un cammino prudente, cedendo il passo a modalità già sperimentate e con effetti positivi. Sarebbe quindi auspicabile che il confronto diventasse un vero e proprio negoziato per concertare. Nell’interesse dello stesso governo che vedrebbe in questa ipotesi esaltato il ruolo di soggetto “terzo”, che aiuta le parti – mediante scambi e persuasioni – a cooperare per obiettivi di natura generale (migliori performance economiche, ma anche nuove sicurezze sociali), trovando nello stesso tempo maggiore supporto per la sua azione. La strada maestra per affrontare i nodi aperti – mercato del lavoro e protezioni sociali – resta dunque quella degli accordi di concertazione. Una strada forse meno suggestiva ed eccitante rispetto ai fasti e alle speranze del passato. Ma che soddisfa ancora istanze primarie.
Essa assicura maggiore coesione sociale rispetto al metodo del decisionismo dall’alto. E garantisce anche risultati diffusi ed effetti pratici più in linea con le aspettative riformatrici rispetto a meccanismi verticalizzati. Soprattutto dovrebbe essere chiaro che nessun soggetto è depositario dell’interesse generale: tantomeno un governo tecnico, la cui ottica è dichiaratamente parziale. I beni comuni sono il frutto di un processo di costruzione condiviso, al cui servizio il governo dovrebbe mettere le sue competenze e la sua stessa “parzialità”.
da Europa Quotidiano 09.03.12