Rito stanco o necessità? Ecco perché questa data può avere significato solo se evolve la società: dai diritti alle nuove regole contro lo stalking. Nonostante la vestissero di giallo, colore disimpegnato, era una ricorrenza “rossa” legata al movimento operaio. Il tema della violenza si accende in occasione di delitti atroci, ma poi sprofonda nel buio e l´interesse vive meno di un rametto di mimosa. Che odio, la mimosa: non profuma, avvizzisce in tempi record e dissemina pallini e pelucchi gialli dappertutto. Tanto è emozionante vederla fiorire sul suo albero come una macchia di luce nel paesaggio, tanto è triste trovarla intrappolata nel cellophane sui banchetti o nei vasi vicino alla cassa dei supermercati. Ridotta a un “brand”, venduta per un giorno a prezzi irragionevoli, la mimosa rappresenta bene tutto ciò che nell´8 marzo è da buttare, dagli orpelli del marketing a quanto di rituale e di stantio, come ogni celebrazione, si porta dietro. E pensare che nel 1946 le rappresentanti romane dell´Unione Donne Italiane la scelsero quasi per caso, e soprattutto per risparmiare. Le rose, invocate insieme al pane nei cortei delle femministe americane a partire dal 1908, erano troppo costose; in cerca di un simbolo diverso dallo storico garofano rosso per caratterizzare in modo immediato la festa delle donne, si risolsero per questa fioritura di stagione, assai comune tra Roma e i Castelli: accessibile, allegra e a costo zero. Nonostante la vestissero di giallo, colore politicamente disimpegnato, l´8 marzo era una festa decisamente “rossa”, legata a doppio filo al movimento operaio. Dopo una prima edizione solo statunitense, la Festa della donna nacque ufficialmente nel 1910 a Copenhagen, con una mozione presentata da Clara Zetkin alla II Conferenza internazionale socialista: per promuovere la causa del voto alle donne e «l´intera questione femminile espressa dalla concezione socialista». Meno chiaro da dove esca la data dell´8 marzo. Nel saggio 8 marzo. Storie miti riti della giornata internazionale della donna, le studiose Tilde Capomazza e Marisa Ombra precisano che fu fissata solo nel 1921, alla seconda Conferenza delle donne comuniste di Mosca, in memoria della grande manifestazione delle operaie contro lo zarismo che si era svolta in quella data nel 1917. A partire dagli anni Cinquanta, tuttavia, si diffondono vulgate che “cancellano” la genesi moscovita, legando l´8 marzo al vivace movimento statunitense d´inizio secolo per i diritti delle lavoratrici, e in particolare – nella tradizione del “martirologio” (in palese analogia con il Primo Maggio, anniversario dei “martiri di Chicago”) – al tragico incendio del marzo 1911 alla Triangle Shirt Waist Company di New York, in cui morirono orribilmente 146 operai, di cui ben 129 erano donne giovanissime: non poterono mettersi in salvo perché i padroni le tenevano chiuse a chiave nei capannoni per evitare che si allontanassero. L´incendio in realtà ebbe luogo a fine marzo, ma nella pubblicistica divenne il mito fondativo della giornata della donna: forse anche, suggeriscono Ombra e Capomazza, per attenuare i caratteri sovietici e comunisti della ricorrenza. Un dato è certo: l´8 marzo, comunque l´abbiano scelto, nasce come festa delle donne lavoratrici. Nei decenni ha perso gran parte di questo carattere “sindacale”. Eppure, il lavoro femminile continua a essere un campo di abusi e sperequazioni. Se la mimosa si può tranquillamente cestinare, vale invece la pena di rinverdire questo spirito delle origini. Tanto più oggi: nel pieno delle difficili trattative sulla riforma del lavoro, nel paese in cui, per la nostra vergogna, a un secolo esatto dall´incendio della fabbrica di camicie newyorkese, cinque donne sono morte nel crollo di un laboratorio di confezioni a Barletta, dove lavoravano in nero per 4 euro l´ora, ben venga un 8 marzo vintage, la cui agenda rimetta al centro la tutela delle lavoratrici. «Le nostre mimose sono progetti di legge», affermava la senatrice socialista Elena Marinucci nel 1980. A fine febbraio ha cominciato a circolare l´appello di 14 donne che chiedevano il ripristino della legge contro la piaga delle lettere di dimissioni in bianco di cui si abusa per licenziare le donne in caso di gravidanza, cancellata dall´ultimo governo Berlusconi: perché, per cominciare, come prima “mimosa di legge” non ci restituite la legge 188/2007?
A partire dagli anni Settanta, l´8 marzo si trasforma profondamente, ingloba le istanze del femminismo e smette di essere una festa solo di sinistra. Cresce, si allarga e, secondo alcune, si annacqua: arrivano le prime denunce dalle femministe più agguerrite che ne invocano l´abolizione. Parallelamente, nel 1975 la ricorrenza dell´8 marzo ottiene dalle Nazioni Unite la consacrazione ecumenica. Proprio un richiamo dell´Onu ci indica l´altro grande tema da porre in agenda per l´8 marzo: la violenza. Dopo una missione conoscitiva in Italia lo scorso gennaio, la relatrice speciale dell´Onu per la violenza contro le donne, Rashida Manjoo, ha espresso allarme per la pervasività della violenza domestica, quasi mai denunciata e spesso nemmeno percepita come reato, e la crescita dei femminicidi per mano del partner o di un ex dal partner o da un ex: dalle 101 donne uccise nel 2006 si sale alle 127 del 2010. La nostra settimana della Festa della donna è cominciata con due episodi atroci: a Brescia un uomo ha ucciso la ex compagna, sua figlia e i rispettivi partner; un altro, nel veronese, ha strangolato la moglie perché sospettava lo tradisse. Il tema della violenza sulle donne si accende come un bengala in occasione di delitti atroci come questi e poi sprofonda nuovamente nel buio. L´interesse pubblico vive meno di un rametto di mimosa. Se la festa dell´8 marzo garantisce un giorno in più di attenzione a questa tragedia che si consuma nel silenzio, basta già questo a giustificare la sua sopravvivenza.
La Repubblica 08.03.12
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“La galassia del nuovo femminismo”, di ANNA BANDETTINI
L’errore generale, dai giornali alla politica alle istituzioni, è pensare che le donne si siano autocondannate al silenzio. Non è così. Sono anni ormai che anche in Italia le associazioni hanno avviato riflessioni, battaglie, campagne sui temi che riguardano il loro ruolo e la loro identità nella società. La partita, ormai è chiaro si gioca su alcuni temi fondanti: sul lavoro e il welfare, sulla partecipazione politica e la democrazia paritaria, sulla lotta al femminicidio che in Italia ha contorni allarmanti (ogni due giorni un omicidio contro una donna) e sulla rappresentazione che pubblicità e massmedia danno della donna.
Sono circa 25 le associazioni (da Il paese delle donne 1 a Filomena 2, da Lucy e le altre 3 ad Aidos 4) che hanno firmato una lettera-documento sulla democrazia paritaria spedita ai presidenti dei partiti, dei gruppi parlamentari di destra e sinistra. La lettera chiede che “vengano introdotte nella legge elettorale, quale che sia il sistema prescelto, norme di garanzia per una rappresentanza di genere paritaria e siano previste norme sanzioni in caso di loro mancato rispetto, nonché organismi di controllo e democrazia”. Le promotrici, Noi rete donne 5, Associazione federativa Femminista
Internazionale e Se non ora Quando-Snoq 6 stanno da mesi lavorando alla stesura di una proposta di legge sulla democrazia paritaria, e su questi temi Snoq organizzerà a Milano una due giorni il 14 e 15 aprile. Donne in quota 7 si è appellata pochi giorni fa al Tar e al Consiglio di Stato contro le scelte della Regione Lombardia di mettere solo una donna in giunta, contravvenendo alle leggi regionali sulla parità di genere.
Lavoro e welfare. L’impegno sulla rappresentanza è direttamente legato a quello sul lavoro e sul welfare, perché se in tempi di crisi sono le donne a pagare il prezzo più alto, è anche vero che senza donne nei luoghi della politica è difficile portare i temi e fare le battaglie per le donne. E proprio sul lavoro dal maggio 2011 la milanese Libreria delle donne 8 ha avviato “L’agorà del lavoro”, una piazza pubblica di discussione dove si progetta un sistema organizzativo del lavoro nuovo e meno maschilista, dove i tempi del lavoro non siano in contrasto con quelli della vita e della cura altrettanto importanti per il welfare di un paese. L’agorà punta a un vero ribaltamento nella visione del mondo del lavoro, “è l’unico agire politico reale per modificare l’organizzazione del lavoro”, dice Pinuccia Barbieri della Libreria dove sabato si presenterà il numero 100 della rivista “via Dogana”: la discussione da subito è stata aperta ad altre associazioni femminili la Lud-Libera Università delle donne 9, Donne senza guscio (donnesenzaguscio.blogspot.com 10) e altre.
Sul lavoro sta svolgendo un importante lavoro l’Udi 11, scesa in campo a difesa delle operaie dell’Omsa di Faenza chiedendo alle altre donne di boicottare i prodotti di quel marchio se le operaie non vengono riassunte. A tutela delle giovani lavoratrici da settimane gira sul web la lettera lanciata da Titti Di salvo sulla legge, abrogata nel 2008, 188 contro la richiesta di dimissioni in bianco da parte delle aziende. Ancora sul lavoro Pari o dispare (pariodispare. org) ha lanciato la campagna sul lavoro e la conciliazione proponendo nuove misure di welfare, a cominciare dalla richiesta del voucher universale per i servizi alla persona. Il vaucher potrebbe essere utilizzato per una badante, una babysitter o per un asilo privato agevolando così la lavoratrice donna. “Perfino molte aziende sono interessante a questo”. Sulla stessa linea si sono mosse le donne di Ingenere 12 che raccoglie professioniste dell’economia, della sociologia ecc.. che hanno redatto una sorta di abcedario su come cambiare il welfare nell’impresa e nell’economia, dall’assegno di maternità universale al ripristino del tempo pieno nelle scuole.
Pari o dispare ha avviato anche una campagna su “media e stereotipi di genere” redigendo un manifesto che continua ad avere adesioni sul loro sito, con un richiamo alla pubblicità responsabile sul corpo femminile e chiedendo alle aziende di sottoscrivere un impegno a non ledere l’immagine delle donne nel promuovere i loro prodotti: da Missoni a Johnson&Johnson hanno già firmato, segno che cambiare si può.
I mass media. Sulla rappresentazione della donna nei mass media si sono mosse anche le giornaliste di Giulia 13: dopo un monitoraggio su come la stampa italiana tratta la donna si organizzerà un convegno pubblico. Sempre Giulia è attiva su altri fronti che riguardano il linguaggio, il lavoro e la violenza che è al centro della prossima campagna di Snoq e dell’Udi: l’Udi sta elaborando un piano nazionale contro la violenza alle donne. Interessanti anche le “bacheche rosa”, realizzate a Napoli da Il paese delle donne 14. Contro la violenza (la Lombardia è tra le poche regioni a non avere una legge regionale in merito) si muove anche Usciamo dal silenzio 15, il gruppo milanese, che per quest’anno riprende come centrali quello della salute che in Lombardia è particolarmente sentito, dunque la legge 194 sull’interruzione di gravidanza, il coordinamento sui consultori che stanno chiudendo.
E a proposito di campagna per il rispetto delle donne, ecco l’iniziativa sulla toponomastica femminile. Persino nei nomi delle strade l’Italia non rispetta la democrazia di genere (a Torino su 1241 strade 27 solo sono dedicate a donne, a Milano che sono poche di più sono solo 130 e così via…). Maria Pia Ercolini ha proposto su Facebook una raccolta di firme che ha già avuto una quantità di adesioni con un bel progetto (8marzo3donne3strade@gmail.com) di memoria femminile: “Tre donne tre strade” chiede ai Comuni di impegnarsi a dedicare le prossime tre strade a tre donne una di rilevanza locale, una nazionale e una straniera. Il Comune di Milano ha già detto sì.
www.repubblica.it
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“Siamo veramente libere di scegliere o è un’illusione?”, di Lea Melandri
Usare seduzione e maternità per ricavarne un vantaggio proprio significa farsi «soggetto» della propria vita. Nonostante il profluvio dei dati che ci informano ogni giorno sulla disparità persistente di occupazione, stipendi, carriere e ruoli di potere tra uomini e donne, sono due i temi che catturano, sia pure sporadicamente il dibattito: la frequenza degli omicidi di cui le donne sono vittime in ambito famigliare e il protagonismo che è andato assumendo il corpo femminile nella sfera pubblica. Segnali apparentemente opposti – permanenza di una atavica possessività selvaggia, nel primo caso, affermazione di una conquistata padronanza di sé, nell’altro -, sono invece, a guardar bene, rivelatori di una libertà controversa che si fa strada lentamente tra molti ostacoli materiali e psicologici, stretta dentro le contraddizioni di un dominio che ha visto confondersi logiche d’amore e logiche di guerra.
Se nei rapporti di coppia, negli affetti famigliari, persistono annodamenti evidenti tra spinte all’autonomia e vincoli di dipendenza, strappi improvvisi e riappacificazioni, più difficile è vedere la sottile linea di confine che passa tra la possibilità, sicuramente maggiore che in passato, che hanno oggi le donne di «scegliere» e l’autonomia profonda da modelli interiorizzati che rende «libere di scegliere». Circa quarant’anni fa faceva il suo ingresso nella vita pubblica una generazione destinata a cambiare le categorie tradizionali della cultura e della politica, e ne nasceva al medesimo tempo un’altra che per effetto di quella «rivoluzione» avrebbe potuto vivere, se non in modo meno problematico, sicuramente meno oppressivo la propria appartenenza al sesso femminile. L’intuizione più originale di quegli inizi è stata rendersi conto che l’esclusione delle donne dalla vita pubblica, e la minorità giuridica, politica, culturale che ancora scontano per questo, comincia nel momento in cui sono state identificate col corpo – corpo che genera e corpo erotico -, sottomesse e sfruttate come «risorse» naturali, costrette a vivere in funzione dell’uomo e attraverso l’uomo. La violenza più insidiosa, perché meno visibile, apparve allora la collusione involontaria tra la vittima e l’aggressore, accomunati dalla stessa visione del mondo.
La generazione delle figlie e delle nipoti gode oggi di diritti fino a pochi decenni fa impensabili, ma che rischiano di rimanere solo formali quando urtano contro un sentire intimo che conserva abitudini, pregiudizi, adattamenti inconsapevoli al passato. Altrettanto si può dire di una libertà che vede il corpo e le attrattive che l’immaginario maschile vi ha attribuito emanciparsi dalla repressione e da un controllo secolari, senza perdere per questo la possibilità di tornare a essere «oggetto» «complemento» di un ordine esistente. Si può leggere in questo senso, per certi aspetti, anche il «talento femminile» richiesto oggi come «valore aggiunto» dalla nuova economia. Usare prerogative come la seduzione e la maternità, che l’hanno resa desiderabile ma anche potente e minacciosa agli occhi dell’uomo, e tentare di ricavarne un vantaggio proprio, qualunque esso sia, significa per la donna farsi «soggetto» della propria vita. La domanda che si pone allora è un’altra: siamo davvero libere o stiamo solo ribaltando quella che è stata un’imposizione in una scelta? Come è possibile che un modello obbligato di sopravvivenza si trasformi all’improvviso nel traguardo massimo di realizzazione propria? Se vogliamo chiamarla comunque libertà, riconosciamo almeno che è piuttosto ambigua.
Il Corriere della Sera 08.03.12
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“Il Paese del futuro è quello che investe su donne e lavoro”, di Valeria Fedeli
Eccoci all’8 marzo. E vorrei dicessimo, anche oggi, a voce alta, dai tanti luoghi in cui ci siamo date appuntamento, che devono cambiare le politiche che ci hanno portato alla crisi emarginando le donne. Le donne vogliono lavorare, fare figli, essere in una società che investe sulle competenze delle giovani donne. Progettare con l’innovazione, creatività, visione nuova, il futuro del Paese. Il cambiamento reale parte dal lavoro delle donne. Il pane e le rose. Il lavoro e la vita! Hanno spesso detto le donne nelle piazze in questa giornata internazionale. Senza il lavoro delle donne, o con lavoro precario a lungo, non si fanno figli. Senza investire nel welfare, non c’è condivisione. E così si spreca l’opportunità di darci futuro a tutti. So che ormai l’8 marzo è diventato, anche tra donne, un giorno di discussione, con chi continua a viverlo come un momento simbolico decisivo per segnare il passo delle nostre battaglie e chi, soprattutto tra le ragazze più giovani, avverte un crescente distacco da simbolismi percepiti come vecchi e consumistici. Ma prima ancora delle proposte concrete c’è necessità di un atto di rottura culturale, che scopra il velo di ipocrisia, smascheri la finta neutralità del linguaggio, smetta di osservare i problemi singolarmente, sperando così di sminuirne la portata. Parlarne per agire! Dobbiamo disvelare tutti i pregiudizi e le discriminazioni verso le donne: verso il corpo delle donne, verso i lavori delle donne, retribuiti e quelli non retribuiti, verso il ruolo che le donne svolgono nella società, per il mantenimento del benessere di tutti, per lo sviluppo e la crescita sociale ed economica del paese. Abbiamo fortunatamente chiuso l’infinita epoca berlusconiana, ma l’epilogo triste e poco edificante dello spettacolo che ci ha offerto l’ex premier ha rimosso un ostacolo all’avvio della risoluzione del problema, ma il problema è ancora lì. Le donne sono quelle che più hanno pagato la crisi, le lavoratrici quelle che più subiscono la precarietà, le ragazze quelle che più faticano a trovare lavoro, tutte, a parità di impiego, guadagnano meno degli uomini. Il lavoro delle donne (e dei giovani) è invece la priorità per uscire dalla crisi e far ripartire il Paese. Perché il lavoro delle donne significa qualità, rispetto, regole, conciliazione dei tempi privati e di impegno professionale, dignità per ogni persona che lavora, servizi e infrastrutture che migliorino le condizioni di vita per ogni cittadino. Come ha ricordato lo scorso 8 marzo il Presidente Napolitano “la parità di genere non riguarda solo le donne, così come le battaglie per dare a tutti i cittadini una vita decorosa non riguardano solo i poveri, le lotte per la libertà politica non sono esclusiva dei dissidenti, quelle per la tolleranza non toccano solo le minoranze. Sono e devono essere cause comuni che coinvolgono chiunque assuma come propri i valori democratici.” Oggi invece, nell’Italia democratica del 2012, viviamo il paradosso percui lavoro e maternità sono divenuti inconciliabili. Continuiamo, in netta contraddizione con tutte le indicazioni legislative, di legalità e di civiltà del Paese , a vedere praticata la richiesta di dimissioni in bianco. Così tante donne rinunciano a fare figli, o vivono questa scelta in modo sofferto e poco sereno. E tantissime, come segnala l’Istat, dopo il primo figlio non rientrano a lavoro. E se in gioco ci sono denatalità e uscita delle donne dal lavoro rischiamo il nostro futuro. Ecco perché mi viene ancora da dire Se Non Ora Quando? Se non ora che c’è un governo che ci ha restituito serietà e autorevolezza e che si propone di rispondere al bisogno di cambiamento, di equità, di modernizzare del Paese? Ora che si discute la riforma del mercato del lavoro. Ora che quella discussione la guidano donne? Ci è capitato, quando si è insediato Monti, di concedere al governo, proprio sul tema del lavoro delle donne e del suo impatto sulla crescita e sul cambiamento del Paese, un’apertura di credito. Ero e continuo ad essere ottimista sulle accelerazioni che questo anno può determinare nel migliorare la condizione femminile. Ma il momento di agire è ora. Non perchè oggi è l’8 marzo,ma perchè già ieri, già un mese fa, già un anno fa eravamo in ritardo. Serve ora u npiano straordinario per il lavoro in Italia e in Europa. Serve ora investire in qualità e innovazione delle scelte di produzione e di servizi, serve ora investire nell’welfare riformato che includa donne, giovani e meno giovani. Serve ora il congedo di paternità. Serve ora una rinnovato investimento nella scuola e nella formazione per costruire alla radice una cultura della differenza tra donne e uomini per avere una società civile che rispetti le donne. Serve ora contribuire a rompere tutti gli stereotipi che assegnano a donne e uomini i ruoli nel lavoro e nella vita. È ora che si consideri la condivisione e l’equilibrio tra lavoro, tempo personale e tempo familiare come investimento culturale e produttivo per il futuro di tutti. Le donne sono la parte del Paese che vuole cambiamento per se, a cui serve il cambiamento e per questo spingono all’innovazione e al benessere per tutti. Quello che serve alle donne, fa stare meglio anche gli uomini e fa avanzare l’Italia. Buon 8 marzo, allora, e buon lavoro a tutte e a tutti.
L’Unità 08.03.12