Come è naturale che sia, le primarie riservano sorprese. Ma sbaglia sia chi non le accetta e sia chi le usa per mettere in crisi il Partito democratico. Cos’è il Pd? Io penso che sia ancora un partito in formazione che si sforza (o dovrebbe sforzarsi) di collocarsi su un terreno nuovo e più avanzato rispetto a vecchi giochi.
Che cosa voglio dire? Voglio dire che a parte il fatto che delle 122 elezioni svoltesi dal 2008 al 2011 novantasei sono state vinte dal candidato ufficiale del Pd a me sembra che i Pisapia, i Doria e gli Zedda (non conosco il palermitano Fabrizio Ferrandelli) siano la conferma del tipo di classe dirigente nuova che questo partito deve avere. Il fatto vero è che stanno scomparendo i vecchi nomi e i vecchi schieramenti. Sbaglierò, ma questo è il punto su cui riflettere.
Come può procedere la costruzione del Pd senza l’avvento di una nuova classe dirigente? La quale oggi non può che partire dalla consapevolezza che nel mondo reale stanno avvenendo cose che toccano come mai il destino dei popoli e insieme la nuda vita delle persone. Per cui le parole (e anche certe facce) non corrispondono più alle cose. Il solo modo che io ho per partecipare ai travagli del Partito democratico è dare una mano a chi sia disposto a impegnarsi in una simile impresa. Se questo qualcuno esiste, faccia quello che crede ma sappia qual’è il suo banco di prova. La condizione preliminare è avere in sé il senso della grandezza del problema che in questo aspro passaggio storico chiama un partito come il Pd a farsi protagonista e al tempo stesso sfida la sua anima più profonda (se essa esiste).
Una difficile sfida perché la democrazia politica non ha futuro se non si misura con i problemi di qualcosa che non è una crisi congiunturale dell’economia ma un drammatico vuoto di governabilità del mondo (siamo al punto che nelle prossime settimane può perfino scoppiare un’altra guerra nel Medio Oriente) creato dal fallimento dell’ordine politico-economico che ci ha governato negli ultimi decenni. Con le conseguenze che vediamo. Una alluvione di economia di carta e un enorme «casinò» finanziario (senza alcuna regolazione politica) che si sta mangiando l’economia reale. E con il seguito di abissali ingiustizie che ci gridano in faccia e che stanno distruggendo i legami sociali, alimentando la violenza. Leggo l’ennesimo attacco ai partiti sul Corriere della Sera firmato questa volta da Michele Salvati. Il professore non ha visto nulla di tutto questo. Se la prende con i partiti ridotti come sono stati ridotti dalla potenza di ben altri poteri. È uno spettacolo triste.
Per fortuna io avverto un nuovo fermento soprattutto nelle leve intellettuali più giovani. Noto un proliferare di scritti, incontri, dibattiti e perfino un certo disprezzo per le vecchie idee di quelli che Keynes chiamava gli «economisti defunti», i quali ancora gravano «come un incubo» sulle nostre menti. Io di ciò sono molto contento. Vorrei però richiamare l’attenzione dei giovani amici sul fatto che il problema non è solo culturale. La sfida vera è come questo risveglio si traduce in una grande idea politica. In una nuova proposta per l’Italia. E soprattutto come si incarna in una forza a vocazione maggioritaria. Direi di fare molta attenzione. La traduzione politica di questo fermento non può ridursi alla formazione di una corrente più radicale. Deve tendere a dare un fondamento più largo a un partito il cui profilo deve più che mai restare democratico e popolare. Il Pd dovrebbe essere sempre meno elettoralistico ed elitario ma più inclusivo, andando oltre i vecchi confini della sinistra, più partito della nazione e protagonista al tempo stesso della politica europea. Insomma non più a sinistra o più a destra ma più saldamente collocato là dove è il centro del conflitto, il quale non è solo nazionale. Quale grande riforma e nuovo patto sociale può governare l’Europa dopo il fallimento dell’attuale oligarchia finanziaria? Questo è il vero interrogativo che dovrebbero porsi anche i professori.
So anch’io che la politica è concretezza e capacità di gestire l’esistente. Ma la verità è che la politica non può ridursi né a un sottoprodotto dell’economia né al populismo di un miliardario che l’ha usata come maschera del suo potere personale. Come non si capisce che la condizione perché l’Europa torni protagonista della scena mondiale e riacquisti la padronanza del suo destino è la restaurazione della sovranità delle istituzioni politiche? Non basta la Banca centrale. Il problema è la democrazia. E la democrazia lo si vede nella ferocia dell’attacco quotidiano al Pd non è «un pranzo di gala». Non è solo la libertà di voto ma la lotta per l’uguaglianza e per la dignità del lavoro. È lo strumento ecco il punto che tanto preoccupa senza il quale le classi subalterne non solo contano poco ma le grandi decisioni continua a prenderle solo l’oligarchia che poi in Italia è sempre quella.
Non si gioca con il Partito democratico. Piaccia o no, siamo un bisogno nazionale. E ciò per la semplice ragione che l’aver salvato l’Italia dalla bancarotta grazie anche al buon governo dei tecnici non cancella ma riporta all’ordine del giorno il problema irrisolto che sta alla base di ogni ipotesi di sviluppo della nazione. Questa condizione è la riorganizzazione delle risorse umane e creative creando un rapporto meno belluino e più cooperativo tra economia, società e Stato. Tra l’antica sapienza del multiforme lavoro italiano e lo sviluppo del Paese. Del resto su che cosa si fonda la attuale prosperità della Germania se non su due grandissime decisioni prese dalla politica e non dai mercati? La prima è stata l’unificazione in pochi anni di una regione come l’Est grande come il nostro Mezzogiorno il quale invece resta da 150 anni una piaga purulenta. La seconda è la più o meno tacita intesa per un grande patto sociale tra operai e industriali che è alla base della eccellenza produttiva della Germania. Cose addirittura impensabili per la classe dirigente italiana.
Tra poco più di un anno si vota. Il Pd cosa dice agli elettori? Si divide tra chi è per Monti e chi è contro? Eviterei questo suicidio. Alzerei invece di molto la voce per dire che siamo di fronte al riproporsi, sia pure in forme molto diverse, di quel dilemma drammatico che si presentò al mondo negli anni ’30 del secolo scorso, quando la grande crisi del ’29 conseguente anche allora dalla rottura di un ordine politico-economico mondiale impose una grande scelta. Da un lato alcuni Paesi avviarono un nuovo tipo di sviluppo basato su un compromesso sociale democratico (le socialdemocrazie classiche ma anche Roosevelt e il new deal). Dall’altro lato ci fu l’avvento in altri Paesi di regimi di massa autoritari. Oggi non siamo a questo. C’è però qualcosa che richiama alla mente quel famoso giudizio di Gramsci su un altro momento torbido della storia d’Italia, quello in cui «il vecchio non può più ma il nuovo non può ancora».
Ecco perché mi interessa tanto l’avvento nel Pd di una nuova generazione. Guardiamo avanti. I risultati delle primarie si accettano. Non serve a nessuno una rissa a Palermo sul tipo di quella che ci fu a Napoli.
L’Unità 06.03.12