Giuseppina Pesce, Maria Concetta Cacciola, Lea Garofalo, erano donne di ’ndrangheta, cresciute e vissute nel contesto di famiglie potenti della più potente tra le organizzazioni criminali. Di quell’appartenenza avevano assorbito le regole, e dentro quelle regole erano vissute fino alla negazione di sé, della propria libertà e della propria dignità. Maria Concetta,ad esempio, era stata sposata a 14 anni, a 15 era diventata mamma, più volte pestata a sangue, a 31 anni aveva tre figli ed è morta ingerendo acido muriatico. E le altre non hanno storie meno tragiche: sono tutte, insieme a tante altre, vittime della più sconvolgente delle sorti, quella di nascere in una famiglia di ’ndrangheta, l’organizzazione criminale che nella famiglia e nei legami di affetto e di sangue che la caratterizzano, trova una delle basi della sua forza e della sua impenetrabilità e una delle ragioni del radicamento anche culturale che la caratterizza nel contesto calabrese. Perciò ribellarsi alla ’ndrangheta, ribellarsi dall’interno, non è solo un atto di pentimento e di dissociazione, è un atto di lacerazione profonda che porta con sé la messa in discussione di tutti i legami affettivi che caratterizzano una vita, fino al-la stessa identità. È un travaglio che queste donne hanno vissuto fino in fondo, perché hanno scelto di contrapporsi, di denunciare, di intraprendere una via di legalità e giustizia, sfidando un mondo che conoscevano troppo bene e del quale sapevano che non avrebbe perdonato. Chi non ha pagato con la vita, in questi percorsi, si è tuttavia consegnata aduna condizione di straordinaria fragilità che rende arduo il percorso di ricostruzione della vita anche sotto la protezione dello Stato. Il rischio della retorica è sempre in agguato. Viene voglia di non unire la propria voce quando si levano, stucchevoli e scontate, le dichiarazioni di solidarietà di coloro che, soprattutto nella politica, sono tra i principali responsabili dello stato di abbandono e di degrado, economico, civile e sociale, in cui vive la Calabria e che costituisce il contesto necessario a che il potere criminale cresca sempre più fino a diventare «strutturale». Il mal governo, l’incapacità di essere classe dirigente, il deficit istituzionale ed amministrativo producono lo stato di sofferenza altissima di quella popolazione ed offrono l’argomento a tutti i leghismi ed a tutte le deresponsabilizzazioni dei governi e della politica nazionale, e non certo da oggi. Ma non c’è retorica nell’appello lanciato dal «Quotidiano della Calabria » che invita a dedicare l’8 marzo a queste tre donne, c’è l’invito a cogliere nelle loro storie e nei loro volti il segno di come, nella più cruda delle condizioni, possa nascere la voglia di riscatto e l’amore per la libertà, la scintilla della speranza e il coraggio di rischiare. La Cgil calabrese, insieme a tanti altri, ha raccolto questo appello e lo fa suo. È necessario, infatti, che prima di tutto i soggetti sociali della rappresentanza colgano che in quelle terre la profondità della crisi e le trasformazioni che essa sta determinando, a partire dall’impoverimento generalizzato del lavoro e dalla disoccupazione di massa, rischiano di produrre, sul terreno della legalità, non un’inversione di tendenza, ma la consegna definitiva all’assurdo destino di diventare una sorta di piattaforma territoriale dalla quale la ’ndrangheta governa il giro vorticoso di affari e miliardi che naturalmente si svolge ben oltre i confini della Calabria, nel cuore industriale d’Italia e d’Europa. E quindi c’è un gran bisogno di costruire fatti nuovi, di suscitare movimenti e mandare nuovi messaggi, anche culturali, di conquistare nuove forze all’impegno ed alla lotta. Nel cosiddetto welfare mafioso non c’è risposta ai bisogni di nessuno, solo assoggettamento, povertà, violenza, umiliazione. Soprattutto per le donne il codice ’ndranghetista è negazione di soggettività e la subcultura della famiglia che essa veicola, e che viene da un lungo retaggio storico, costituisce la negazione di ogni possibilità di crescita economica, civile e dei diritti. Lea, Maria Concetta e Giuseppina in fondo non chiedevano null’altro che normalità: volevano lavorare, amare, crescere i loro figli come le loro coetanee di tutta Europa. A loro non è stato concesso, per la particolarità tragica della loro condizione. Ma quanta di questa libera normalità è concessa in generale alle donne calabresi? Il tasso di occupazione non supera il 30%, chi lavora il più delle volte è precaria, o in nero, o a sottosalario. Ormai non ci si presenta neanche più a cercare lavoro e chi vuole farlo deve andare via, sempre se ha una famiglia che può permettersi di integrare le risorse necessarie allo spostamento. Se si ha un figlio, o un genitore non autosufficiente, è obbligo rinunciare perché nel campo dei servizi c’é il deserto; e se i servizi ci sono il loro costo non rende conveniente lavorare per l’andamento delle retribuzioni reali. Può diventare questa condizione una molla per un movimento di donne che chiede lavoro, servizi, cambiamento? L’8 marzo, nel nome di tre donne che hanno cercato e prodotto cambiamento, sarà importante discuterne.
L’Unità 06.03.12