Con le proteste in Val di Susa contro i lavori della Tav si riapre la discussione sul confine tra le forme legittime di contestazione e le azioni inaccettabili. Attraverso lunghe lotte e aspri conflitti durante il Ventesimo secolo la democrazia è riuscita veramente a dare la voce a molti. La strategia non è rivoluzionaria, ma piuttosto fuga secessione resistenza passiva disobbedienza non collaborazione. L´antagonismo non è estremismo. Quest´ultimo, infatti, è concepibile solo all´interno di una concezione lineare della politica, appunto raffigurata, in via di metafora, come un segmento orizzontale, nella quale c´è un centro e ci sono gli estremi, oppure verticale, come la scala di un termometro, che ha temperature accettabili e altre, invece, polari o tropicali. L´estremismo è quindi un concetto statico, posizionale; e soprattutto è una posizione politica vista e interpretata dal potere, che fissa e stabilisce in piena autonomia limiti e gradazioni.
Al contrario, c´è nella nozione di antagonismo una concezione agonale della politica; e c´è una idea di movimento – qualcuno, qualcosa, va contro il potere, che è sì protagonista, ma che trova un avversario – . L´antagonismo è una politica che vuol essere non statica ma dinamica; una politica che possa essere vista anche da una prospettiva diversa da quella del potere, anche nell´ottica di chi al potere si oppone, da chi lotta contro di esso. Nell´antagonismo non c´è più l´Uno: c´è il Due. Il potere non è più libero di definire sovranamente i propri avversari; questi prendono la parola, lo chiamano a gran voce, lo provocano. Il potere ha finalmente trovato un soggetto che non si assoggetta, che lo sfida. Un Altro, insomma.
Fin qui nulla di male, anzi. L´armonia nasce dal conflitto, come insegnava già Eraclito; e l´idea che solo il potere abbia la parola sarebbe realmente insopportabile. La dialettica, il discorso che si scontra e che passa dall´uno all´altro, è vita. E la democrazia è appunto l´insieme delle istituzioni e delle pratiche che danno voce a tutti, che rendono possibile il conflitto regolato, che non accettano – o almeno non dovrebbero – l´idea che c´è una Voce sola, quella del Potere. E veramente, attraverso lunghe lotte e aspri conflitti, la democrazia nel XX secolo ha dato voce a molti, ed è stata un´arena di conflitti civili, sociali, economici e ideali. La democrazia ha reso produttivi gli antagonismi, insomma.
Ma è anche vero che all´interno delle istituzioni democratiche esistono da tempo forze che non danno credito ad esse, che praticano l´antagonismo non come una dialettica, cioè per dialogare, alla pari, col potere; forze che non chiedono l´inclusione paritaria nell´arena politica; che non esigono il riconoscimento all´interno di una comune cittadinanza: che col potere, anche democratico, non vogliono avere nulla da spartire, neppure lo spazio del conflitto. Che rifiutano dialogo, cittadinanza, spazio, inclusione, perché li ritengono già pregiudicati, perché li vedono come un Sistema col quale non vogliono avere nulla da spartire, un Tutto di cui non vogliono essere Parte, una falsità in cui non ci può essere alcuna verità. Il Soggetto antagonista non vuol essere né ragionevole né dialettico: non si lascia inserire, in alcun ruolo, nel Sistema. Semplicemente, vi si oppone, lo combatte frontalmente, esistenzialmente: cioè per il fatto che esiste, e, esistendo, nega la sua libertà.
Non necessariamente l´Antagonismo entra nella logica amico/nemico, della violenza mortale, anche se non la rifiuta in linea di principio; quando vi entra, tuttavia, non lo fa per motivi strategici, per ottenere qualcosa: al sistema non chiede nulla, dopo tutto – lo provoca con richieste assurde, per farsi dire di No, e per dirgli di No – . Del resto, l´antagonismo non ha la forza di prendere il potere con una rivoluzione e di rovesciarlo, per farsi esso stesso Potere. Quando l´antagonismo ricorre alla violenza (il che avviene, peraltro, di frequente) lo fa per colpire (non simbolicamente) dei simboli, realizzando così una spersonalizzazione dell´avversario uguale e contraria a quella che imputa al Potere. Per definire la strategia dell´antagonista si può parlare non di rivoluzione né tantomeno di opposizione, quanto piuttosto di fuga, di secessione, di resistenza passiva, di non collaborazione, di disobbedienza, di potere destituente, di “passaggio al bosco”, di contestazione (cioè di un´accusa che si esprime con un linguaggio che non appartiene all´imputato ma solo all´accusatore).
Per tacere di settari e fanatici di ogni tempo, e per restare alle esperienze contemporanee, questi atteggiamenti – tanto più diffusi quanto più lo spazio politico appare conformista, o inospitale, o paludoso – si ritrovano sia negli anarchici sia nell´ecologismo radicale, sia in autori un tempo “maledetti” come Céline (nel suo antisemitismo), o come Pound (nel suo silenzio postbellico), sia in personalità un tempo alla moda come Marcuse (nel Gran Rifiuto) sia in figure elitarie come Jünger (nel suo Anarca).
Accanto a poche posizioni alte e faticose ve ne sono però molte di infantili e di troppo facili, di irresponsabili, e ancora di più di teppistiche e di criminali (dai black bloc a Unabomber, solo per fare qualche esempio). Soprattutto, c´è nell´antagonismo il rischio di non avere nulla da dire: il rischio, cioè, per sottrarsi alla dialettica, di agire in una sorta di muto automatismo, di presentarsi puntualmente, dove c´è un problema, una criticità, non per affermare una ragione ma per lanciarsi, per partito preso, contro il potere. Così l´antagonismo, per non avere nulla a che fare col potere, finisce per dipenderne esistenzialmente, per esserne l´ombra, non la negazione ma il negativo, il semplice rovescio, la fastidiosa appendice. E il suo preteso dinamismo si rivela così solo una contrapposizione statica, sterile, dannosa. Non politica, dopo tutto.
La Repubblica 01.03.12
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“LA STRATEGIA DEL RANCORE”, di MIGUEL GOTOR
Dissenso, conflitto, antagonismo, violenza, lotta armata: per comprendere la realtà bisogna anzitutto distinguere fenomeni assai diversi tra loro. Il dissenso e il conflitto sono il sale della democrazia, la violenza e la lotta armata ne sono l´esatta negazione, mentre l´antagonismo è un´ambigua terra di confine che le istituzioni (governo e forze dell´ordine) e la politica (partiti e movimenti) hanno il dovere di non ignorare, né di sottovalutare per evitare il rischio di ulteriori e più pericolose radicalizzazioni. Non è facile, ma è proprio lungo quello scivoloso crinale che si misura da sempre la qualità di una democrazia.
L´errore peggiore è fare di ogni erba un fascio utilizzando in modo indiscriminato la categoria “monstre” di terrorismo. Chi lo commette spesso evoca gli anni Settanta nel tentativo di riattivare i meccanismi di una microstrategia della tensione alimentando il circuito provocazione/repressione/resistenza. Purtroppo, per una certa destra nostrana si tratta di un riflesso istintivo, lo scatto di una tagliola ideologica che si direbbe sallustiana (e il riferimento non è all´insigne storico latino…). E così, sulle pagine de il Giornale, il contadino No Tav Luca Abbà, nelle ore in cui sta lottando per la vita, è definito un “cretinetti” ed equiparato all´editore rivoluzionario Giangiacomo Feltrinelli, dilaniato da una bomba nel 1972, mentre voleva far saltare un traliccio per boicottare il congresso del Pci (quest´ultimo dato è omesso non essendo funzionale al disegno disinformativo). I due uomini in comune hanno soltanto un traliccio, ma tanto basta per sfoderare la similitudine allusiva e rancorosa, che serve a soffiare sul fuoco dello scontro.
In realtà, tra l´Italia attuale e quella degli anni Settanta le differenze prevalgono sulle analogie. I parallelismi sono essenzialmente due: il primo riguarda una crisi economica bruciante, ieri di carattere energetico, oggi di segno finanziario. Il secondo concerne il funzionamento del sistema politico in quanto sia negli anni Settanta, con Aldo Moro e la solidarietà nazionale, sia oggi, con Mario Monti e il governo dei tecnici, è in corso un processo di accentramento del quadro generale per rispondere a una situazione di emergenza. Negli anni Settanta gli esiti di quest´azione furono drammatici perché la reazione a essa produsse un lungo ciclo di violenza extra-parlamentare, di stragismo neofascista e di terrorismo rosso che favorirono una soluzione moderata della crisi.
Le differenze toccano anzitutto la politica che allora era robusta e innervata come le ideologie che la sostenevano lungo l´asse anticomunismo/antifascismo. Inoltre, vi era un quadro di attivismo operaio, studentesco e femminile che si confrontava con eventi sociali e culturali epocali come l´immigrazione interna, la diffusione dell´università di massa, la rivoluzione nel mondo dei consumi e dei costumi. Infine, oggi manca la dimensione internazionale della Guerra fredda che allora favorì l´esplosione e il radicamento destabilizzante di quegli avvenimenti.
Per queste ragioni la violenza diffusa, lo stragismo e la lotta armata degli anni Settanta costituiscono un evento difficilmente ripetibile. Ciò non significa che quanto sta avvenendo debba essere sminuito poiché la crisi di rappresentanza della politica e la sua continua svalutazione, così come la riluttanza di questo governo a “metterci la faccia” laddove ci sono problemi di ordine sociale denunciano l´ampiezza di un deserto che purtroppo non promette nulla di buono.
La Repubblica 01.03.12