È un’assurdità e una follia che dei bambini nati in Italia non diventino italiani». Parole forti del presidente Napolitano, che prima di Natale ha sollecitato il Parlamento a farsi carico del tema dell’acquisizione della cittadinanza italiana da parte dei figli degli immigrati. Parole riprese nei giorni scorsi dal ministro dell’Interno Cancellieri e da quello dell’Integrazione Riccardi, con sfumature diverse. Parole che ci dicono che il tempo è maturo per intervenire; anzi ne abbiamo perso già troppo, incapaci di superare lo stallo – sovente molto ideologico – fra le maglie troppo strette dello ius sanguinis e quelle troppo larghe dello ius soli.
Una cosa è certa: l’attuale legge, che prevede il diritto di acquisire a 18 anni la cittadinanza solo per i figli di genitori stranieri che siano nati qui e che dimostrino di aver risieduto in Italia tutta la vita senza interruzioni, non funziona. E’ barocca e impraticabile: per le famiglie immigrate, dimostrare la residenza ininterrotta è molto difficile, soprattutto perché le varie sanatorie che l’Italia ha adottato hanno creato periodi di vuoto nelle iscrizioni in anagrafe, anche nei casi di effettiva residenza in Italia. Soprattutto, è una legge fuori dal tempo, che non fa i conti con la realtà dell’immigrazione in Italia: forse accettabile ieri quando il fenomeno era una novità, non certo oggi quando nelle grandi città un nato su tre ha genitori stranieri. Quando venne varata, gli stranieri diciottenni nati in Italia erano poche decine. Nel 2012 circa 8000 stranieri nati in Italia diventeranno maggiorenni. Sappiamo – perché sono già nati e risiedono in Italia – che il numero dei diciottenni stranieri salirà a 16.000 nel 2016, 33.000 nel 2020, 72.000 nel 2026. Perché mai costringere tutti questi giovani nati e cresciuti in Italia a percorsi di esercizio di un loro diritto lunghi (al compimento dei 18 anni, le pratiche possono prolungarsi anche per tre anni), inutilmente tortuosi e soprattutto incerti?
La Fondazione Agnelli ha da tempo una proposta semplice da tradurre sul piano legislativo e probabilmente in grado di ottenere un consenso ampio sul piano politico.
La nostra proposta è che l’acquisizione della cittadinanza da parte dei figli degli immigrati discenda dall’aver frequentato le scuole italiane. Per chi è nato in Italia da genitori stranieri (le seconde generazioni in senso stretto), ma anche per chi vi è arrivato in tenera età (le cosiddette generazioni 1,75), un percorso scolastico completo (dalla primaria al completamento dell’obbligo formativo a 16 anni) e certificato (pagelle, esami di Stato) deve poter costituire una dimostrazione sufficiente non solo della permanenza nel nostro Paese – come attualmente richiesto dal requisito di residenza – ma soprattutto di una conoscenza adeguata della lingua italiana e di tutti quei requisiti di cultura storica, civile e scientifica che riteniamo irrinunciabili per la formazione di un buon cittadino italiano. La scuola dell’obbligo, oltre a sottoporre a un trattamento di circa 10.000 ore di lezione lungo l’arco di una decina di anni, assicura un livello di integrazione – ad esempio con i compagni di classe – che il semplice requisito di residenza non garantisce. D’altra parte, chi se non la scuola – ha svolto la missione di «fare gli italiani» negli ultimi 150 anni?
Riconoscere la scuola, anche ai fini giuridici, come il vero luogo dell’integrazione dei figli degli immigrati significa fare passi in avanti rispetto alla situazione attuale: (a) si supera l’attuale discrepanza tra il trattamento delle seconde generazioni e quello riservato alle generazioni 1,75; (b) si rimuove l’incertezza sull’approdo alla cittadinanza italiana che attualmente caratterizza l’adolescenza delle seconde generazioni, ossia la fase della crescita in cui si consolidano i valori e i sentimenti di appartenenza; (c) si abbassa l’età di acquisizione della cittadinanza dai 18 (ma nei fatti siamo sempre sopra ai 20) ai 16 anni, seguendo la tendenza europea all’anticipazione; (d) si riafferma esplicitamente la centralità della funzione scolastica, richiamando inoltre le famiglie immigrate, direttamente interessate, alle proprie responsabilità nel curare la regolare frequenza dei propri figli. Secondo noi, sarebbe il modo migliore per dar seguito all’appello del Capo dello Stato.
* Direttore Fondazione Giovanni Agnelli
La Stampa 23.02.12