Di solito a botte o a coltellate, quasi sempre per mano di mariti, fidanzati o ex. In Italia c’è una vittima ogni tre giorni, e va sempre peggio. Se Laura sappia o meno che l’omicidio è la causa principale di morte per le donne, non glielo leggi in faccia. Quello che vedi chiaramente invece, mentre racconta l’incubo di quasi dieci anni di violenze subite da parte del marito, è il sollievo per esserne uscita. Perché, alla fine, quel che resta non sono le botte, ma la consapevolezza di essersi ripresi la propria vita.
Certo, c’è pure la paura che l’epilogo della storia potesse essere diverso, come è stato per Stefania Noce, attivista 24enne di “Se Non Ora Quando” di Catania, accoltellata dal fidanzato che non si rassegnava ad essere ex. Anche per Maura Carta le cose sono andate diversamente, presa a pugni fino ad essere uccisa dal figlio schizofrenico, una delle 19 vittime dall’inizio dell’anno al 15 febbraio.
E se i numeri sono questi, non c’è da aspettarsi niente di buono per il 2012, “considerando anche il fatto – sottolinea Cristina Karadole dell’associazione Casa Delle Donne Per Non Subire Violenza – che è dal 2006 che l’elenco dei femicidi aumenta costantemente, superando la media di 120 l’anno”.
Omicidi che lasciano la scia di storie tutte diverse tra loro, eppure tutte uguali: violenze fisiche e psicologiche come copione fisso di una vita, che vorrebbero rimettere in riga la donna che ha osato troppo. “E’ così che succede – spiega Laura -, ti spengono poco a poco: prima ti fanno sentire una nullità, ti umiliano anche davanti agli altri, ti privano del tuo stipendio. Poi arrivano i cazzotti, e ti illudi che quella sia l’ultima volta”. E non sarà un caso – fanno notare le associazioni femminili – se la maggiore concentrazione di violenze hanno luogo nel più emancipato nord Italia.
A proposito di associazioni, è grazie a loro se si ha un’idea di quanti omicidi di donne avvengano, perché di dati ufficiali dalla Questura non ce ne sono, tanto per dare la misura di quanto sia considerato il problema. E’ grazie al loro lavoro, per esempio, che si sa che delle 127 donne che hanno perso la vita nel 2010, 114 sono state uccise da membri della famiglia, di cui 68 erano partner della vittima, mentre 29 ex partner. Il che ha delle conseguenze sorprendenti riguardo alcuni luoghi comuni sulle violenze: intanto che avvengono per lo più dentro casa, e non per strada.
E visto il ruolo prezioso che ricoprono associazioni come “La Casa Delle Donne Per Non Subire Violenza” di Bologna, o le romane “Be Free” e “Differenza Donna”, che sono i primi luoghi di assistenza a cui si rivolgono le vittime di maltrattamenti (attraverso i Centri Antiviolenza), si sarebbe portati a pensare che i finanziamenti pubblici trovino sempre la strada per arrivare nelle loro casse. Naturalmente non è così. “Negli ultimi tre anni e mezzo – chiarisce l’on. Rosa Calipari – sono stati tagliati i fondi ai Centri Antiviolenza, salvo poi essere rimessi al loro posto in extremis due giorni prima che cadesse il governo Berlusconi”, con 18 milioni di euro ricomparsi all’improvviso dal cilindro dell’ex ministro Mara Carfagna. E nel frattempo diversi centri hanno dovuto chiudere i battenti, mentre altri si sono dovuti affidare alla buona sorte sperando in donazioni private.
Circostanza quest’ultima che, chissà, potrebbe aver influenzato in qualche modo l’Europa nel giudicare negativamente la condizione femminile in Italia. Ma forse c’entra anche il fatto che, come racconta l’on. Calipari, “il nostro Paese è l’unico non solo a non firmare la convenzione europea che riguarda la battaglia contro la violenza sulle donne, ma anche l’unico a non partecipare in assoluto ai lavori di preparazione della convenzione”.
E quello che è evidente in grande, lo è ancora di più se si analizzano in dettaglio le parti: “Abbiamo il problema”, spiega la Calipari, “di dover formare chi interviene in queste storie di maltrattamenti, quindi gli assistenti sociali, le forze dell’ordine, i magistrati, per affrontare in maniera diversa la violenza di genere”. Perché succede che i casi di violenze non vengano neanche riconosciuti come tali quando si presentano, o che il poliziotto di turno faccia firmare un verbale con la versione edulcorata di ciò che è accaduto realmente dentro le mura domestiche. E conclude: “Quello di questo Paese è un problema culturale, prima di tutto”.
L’Espresso 19.02.12
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