La sentenza di Torino riveste un´importanza fondamentale in tema di tutela della salute sui luoghi di lavoro. Essa stabilisce anzitutto una relazione stretta tra una sostanza alla quale gruppi di lavoratori sono stati esposti in azienda e una patologia che li colpisce anche molti anni dopo. Per oltre un secolo, infatti, le famiglie dei lavoratori deceduti a causa dell´amianto sono state sconfitte in tribunale, con l´eccezione di rari casi individuali. Gli avvocati della difesa, infatti, riuscivano a insinuare nei giudici il dubbio che un cancro alla pleura o al polmone potesse davvero manifestarsi a decenni di distanza dal periodo di esposizione ad esso. In realtà sulla pericolosità delle polveri di amianto, dovuta alla loro conformazione vetrosa, aveva richiamato l´attenzione un´ispettrice di fabbrica inglese sin dal 1898. Nel corso del Novecento la sua denuncia fu seguita da quella di numerosi medici in Francia, Usa, Canada, Germania, Sud Africa, oltre che nel Regno Unito. Ma pur nei casi in cui si era arrivati a una causa, la parte civile ebbe sempre la peggio nel tentativo di dimostrare che era stato il lavoro su manufatti amiantiferi a decretare la morte di molti operai in un dato impianto, a distanza di venti o trent´anni.
Pertanto la sentenza di Torino avrà certamente un effetto sulla valutazione di altre tragedie. L´Organizzazione Internazionale del Lavoro stima che le morti correlate alle condizioni delle fabbriche siano due-quattro volte maggiori di quelle dovute agli incidenti sul lavoro. Si tratta quindi di aggiungere agli oltre mille decessi che si registrano in Italia altre 2.000-4.000 vittime “fantasma” l´anno.
La responsabilità dei maggiori dirigenti è un altro aspetto innovativo della sentenza di Torino. Anche dinanzi a gravi compromissioni della salute dei dipendenti, il loro ad, il direttore generale o il presidente, siano italiani o stranieri, se la sono sovente cavata sostenendo che non potevano sapere che cosa succedeva. Il responsabile, se c´era, andava individuato nel direttore di stabilimento, nel capo reparto o altre figure intermedie. Dall´andamento del processo si può invece desumere che la sentenza in parola non si fondi semplicemente sull´ipotesi che il capo della Eternit Italia, o il maggior azionista svizzero, non potevano non sapere. Essa sembra invece statuire che i massimi dirigenti avevano il dovere di predisporre un sistema di informazioni atto a comunicare ciò che nella loro posizione avevano il dovere di sapere: che l´amianto uccide. L´omissione di tale intervento è ciò che ha concorso a renderli penalmente responsabili.
La sentenza di Torino vale anche a ricordare che l´amianto ha ucciso in Europa milioni di persone nel corso del Novecento, grazie all´importazione di 800.000 tonnellate l´anno, diminuite solo dopo il 1980. L´uso industriale dell´amianto è stato infatti vietato dalla Ue con grande ritardo, nel 1999. Inoltre, dato che il cancro indotto da esso ha tempi lunghi, continuerà a uccidere per decenni. Un rapporto 2001 dell´Agenzia Europea per l´Ambiente stimava che da lì al 2035 esso avrebbe provocato ancora tra 250.000 e 400.000 decessi. Dal che emerge un´altra colpa, largamente distribuita tra imprese, ministeri del lavoro e della sanità, dirigenti industriali, ricercatori. Per cent´anni, dopo che un´ispettrice del lavoro e un medico inglesi avevano denunciato la pericolosità di quella sostanza, non si è dato peso ai segnali precoci. Fino a quando non si sono trasformati in una terribile lezione, come dice il rapporto citato. Perciò la sentenza di Torino rappresenta pure un fermo invito a badare ai segnali precoci che di continuo si profilano in tanti settori industriali, dove si lavora con sostanze e processi forse non pericolosi come l´amianto, ma che rischiano comunque di infliggere col tempo dolorose lezioni.
La Repubblica 14.02.12