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"Dramma carceri nella paralisi “tecnica” e politica", di Vladimiro Zagrebelsky

L’ attenzione alla gravità delle condizioni di vita in carcere viene spesso richiamata da episodi clamorosi o tragici, come le morti in carcere e in particolare i suicidi di detenuti. Non meno significativi i suicidi compiuti da agenti di custodia, poiché anch’essi sono spia del clima carcerario troppo degradato e teso per essere sopportato. Ma l’occasionale attenzione dell’opinione pubblica presto svanisce, mentre il problema resta, giorno per giorno, ormai da troppi anni.
Nelle carceri italiane i detenuti sono ora circa 68.000 e sono ristretti in prigioni che potrebbero riceverne solo 45.000. Il sovraffollamento è la principale ragione delle condizioni inaccettabili in cui la detenzione ha luogo, sia per coloro che sono in espiazione di una pena definitiva, sia per le persone che sono detenute per ragioni cautelari nel corso del procedimento. Condizioni inaccettabili in linea generale, anche se qua e là, per le migliori condizioni delle strutture e le iniziative dei direttori degli istituti, la situazione è migliore e non drammatica. Ma si tratta di eccezioni, cosicché è ormai evidente che il problema è sistemico e gravissimo. Lo ha ripetutamente detto il presidente della Repubblica. Lo ha detto in Parlamento, ed anche uscendo da visite nelle carceri, il ministro della Giustizia.
Le ricerche effettuate sulle dimensioni e ragioni del fenomeno dei suicidi in carcere sembrano indicare che il sovraffollamento è solo uno dei fattori incentivanti, mentre a esso si aggiungono altri elementi che concorrono ad aumentare la tensione interna all’istituto penitenziario, nei rapporti tra detenuti e tra i detenuti e il personale penitenziario. Ma il sovraffollamento impone al personale un sovraccarico di lavoro e lo rende più penoso; le strutture sono messe a dura prova e la loro utilizzabilità è ridotta; l’assistenza medica risulta più difficile e meno tempestiva, quella psicologica in particolare. Il sovraffollamento non è solo gravoso in sé, ma è causa di altri motivi di sofferenza aggiuntiva.
Si può continuare così? Sembrerebbe di no, poiché c’è un’evidente contraddizione con la Costituzione che vieta le pene contrarie al senso di umanità, con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo che proibiscono le pene e i trattamenti inumani o degradanti. Tuttavia nulla di veramente risolutivo si muove. Il decreto cosiddetto «svuota carceri» (che il Senato dovrebbe approvare definitivamente tra qualche giorno) porta da dodici a diciotto mesi il periodo finale della detenzione espiabile in detenzione domiciliare. Poco più di 3000 detenuti potrebbero essere ammessi al beneficio. Il precedente termine di dodici mesi era stato previsto da una legge del 2010 che fu chiamata «sfolla carceri». Né uno slogan, né l’altro si rivela utile a sostituire la realtà alle speranze o ai messaggi ottimistici. I risultati infatti sono modesti, se raffrontati alle dimensioni del problema: nelle carceri si affollano 23.000 detenuti di troppo. Di troppo rispetto alla capienza e alle possibilità di una vita decente da parte di chi, privato della libertà, non lo è degli altri diritti e soprattutto non del diritto al rispetto della dignità. Non invece di troppo in assoluto, poiché il rapporto detenuti/popolazione in Italia non è significativamente diverso da quello di Paesi europei comparabili ed anzi è spesso inferiore. Si tratta di un fattore che indica che la prospettiva spesso avanzata di risolvere il problema mediante l’eliminazione dalle leggi di molte ipotesi di reato è illusoria. Si può certo depenalizzare un certo numero di reati, ma non sono questi quelli per cui si scontano effettivamente pene detentive. Le sanzioni alternative al carcere stentano ad assumere una vera incidenza nel sistema. E i programmi di aumento dei posti in carcere non sono realizzabili in tempi brevi, mentre ora urge metter fine a un’emergenza che è tale ed è insopportabile.
Negli Stati Uniti il sovraccarico delle carceri – con tutto ciò che esso comporta – è già stato riconosciuto come causa di trattamento «crudele e inusuale» e quindi contrario alla Costituzione. La Suprema Corte federale ha quindi disposto l’anno scorso che la California riduca di 40.000 il numero dei detenuti. Una sentenza e una iniziativa certamente eccezionale, ma resa obbligata dalla eccezionale gravità della situazione creata dal sovraffollamento.
In Italia è disponibile una sola misura: l’indulto. L’indulto è uno sconto di pena rispetto a quella stabilita dal giudice e si applica a tutti i condannati per i reati che il provvedimento di indulto considera (escludendo la applicazione per certi reati o per i condannati recidivi). Si può immaginare che un indulto di un anno porterebbe alla scarcerazione immediata di circa diecimila detenuti. Certo uno sconto di pena congegnato come l’indulto è per certi versi irragionevole rispetto ai criteri stabiliti dalla legge per la punizione di ciascun reato. Ma, come in passato, la logica che dovrebbe spingere ad una simile iniziativa legislativa risponde solo alla necessità di interrompere il protrarsi di una situazione oggettivamente intollerabile. E per analoga ragione all’indulto dovrebbe essere unita anche un’amnistia per un certo numero di reati selezionati tra quelli minori e di minor allarme sociale. L’amnistia, che estingue il reato, ridurrebbe la massa di 3,4 milioni di procedimenti pendenti e largamente destinati comunque alla prescrizione. Anch’essa peraltro contribuirebbe a ridurre il numero dei detenuti, che spesso scontano pene per reati minori unitamente a quelle per i reati più gravi.
In mancanza di alternative rapidamente praticabili ed efficaci, rifiutare la soluzione dell’indulto significa che si è pronti a tollerarla. Purtroppo è ciò che avviene. Il governo, alle prese con problemi di natura economica urgenti e costretto ogni giorno ad osservare il sismografo dei malumori e degli interessi dei partiti che lo sostengono in Parlamento, rinvia ad una iniziativa parlamentare. Dal Parlamento, ove sarebbe necessaria una maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, non arrivano proposte, perché il partito che dimostrasse di essere disponibile a sconti di pena sarebbe subito aggredito dai partiti all’opposizione, che griderebbero al tradimento del diritto dei cittadini alla sicurezza. E, in prossimità di elezioni, il rischio di pagare un prezzo elettorale è reale.
Fermo quindi il «governo tecnico» e ferma la «politica», che si ritrae da un terreno in cui i soli radicali sembrano impegnati a mantenere vivo il dibattito sui temi dei diritti e delle libertà; temi che, essendo controversi, sono scomparsi dall’orizzonte delle iniziative altrui. Perché l’emergenza economica e finanziaria in cui l’Italia si trova, tra i tanti pesi che impone, provoca anche il grave silenzio sulle questioni di cittadinanza che, sebbene (sanamente) divisive, restano inevitabili per rendere viva e civile la nostra società.

La Stampa 12.02.12

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