Maria Concetta, Lea, Rita, Giuseppina. Storie di donne che, dice don Luigi Ciotti, «hanno deciso di ribaltare il piano inclinato della violenza lungo il quale le mafie fanno scivolare la vita di migliaia di persone, ed adesso si rifiutano di ritenere quella mafiosa l’unica organizzazione sociale possibile». C’è più di una nota di speranza, nelle parole del fondatore di “Libera”. C’è la consapevolezza ragionata che si è messo inmoto un meccanismo inarrestabile, impensabile appena pochi anni fa nel Sud del padre-marito-figlio padrone.
È lo scardinamento definitivo di un modello ancestrale, don Luigi?
«C’è questo dato, che può interessare i sociologi, ma c’è ovviamente molto altro. La molla che fa scattare la ribellione è l’arrivo dei figli. È l’amore viscerale che produce la rottura: il pensiero delle creature che hanno messo al mondo le spinge a chiudere con quel mondo di sopraffazione e violenza. Lea Garofalo la conobbi a Firenze, al termine di una manifestazione di “Libera”. Si avvicinò e mi chiese aiuto, non per sé, ma per Denise, la figlia: Lea non voleva che la ‘ndrangheta le rubasse la vita come l’aveva rubata a lei. Le procurammo un avvocato, che ora assiste Denise nel processo contro i presunti assassini della madre. In fondo, che cosa mi aveva chiesto la povera Lea? Di aiutarla a riappropriarsi della propria dignità, e di esser messa
nelle condizioni di far crescere la figlia in un mondo pulito».
Poi venne Maria Concetta Cacciola. «Un’altra bella e alta donna del Sud, come Rita Atria, come la Buscemi, che sfidò i suoi fratelli nelle aule di Tribunale, come Felicia Bortolotti Impastato. Quando le uccisero il figlio Peppino disse una cosa meravigliosa: non voglio vendetta, voglio giustizia. Trasformò immediatamente il dolore in volontà di cambiamento. Ora sono loro, le donne, la punta più avanzata del risveglio antimafia che registriamo al Sud». Uno spiraglio di luce. «Più di uno spiraglio. C’è uno straordinario fermento sotterraneo, sicuramente frutto del grande lavoro culturale svolto negli ultimi anni nelle scuole e all’interno della società meridionale. Perché guardi, in queste donne non c’è solo la volontà di cambiare campo, c’è soprattutto il bisogno di ritrovare ciò che le mafie hanno rubato loro: la libertà, la vita, la dignità».
È un movimento importante? «È un fiume che va progressivamente ingrossandosi. Non ci sono solo le collaboratrici e le testimoni di giustizia. Ci sono tante donne,come associazione ne seguiamo attualmente una quindicina, che fanno fagotto e basta. Scappano con i figli, decidendo di rompere per sempre con quella vita. Magari non hanno niente da offrire allo Stato, perché dei loro uomini, mariti, fratelli, padri, sanno solo che sono dei delinquenti e basta». E chi le protegge? «Ci sforziamo di farlo noi, e sono salti mortali. Recentemente sono stato contattato da una di loro, a cui hanno ammazzato il marito. Niente nomi. Ha una figlia piccola: mi ha detto che vuole che cresca al Nord, lontana dall’ambiente che ha deciso la morte del padre. È un problema del tutto nuovo, perché queste persone non rientrano nei parametri previsti dalla legge per l’applicazione delle misure di protezione. Non hanno scorta, né sussidi economici dello Stato,non possono cambiare identità ».
Come fate?
«Ci affidiamo alla rete di sindaci amici che abbiamo cercato di creare in tutta Italia. Ci danno una mano loro. Le facciamo spostare in continuazione da un comune all’altro, sempre sperando che non accada niente, perché il mondo che si sono lasciate alle spalle non dimentica: le cerca, le tampina.Eloro, giustamente,
hanno paura.Main tutte il riscatto della dignità è più forte del timore di eventuali ritorsioni».
Sarà necessario intervenire sul piano normativo?
«Basterebbe esercitare buon senso e umanità: è sufficiente la stipula di protocolli riservati, in grado di coprire la vacatio legis. Ci troviamo di fronte a persone che hanno deciso con coraggio di infrangere codici millenari, fondati sulla violenza e su un assurdo rispetto sacrale del ruolo subordinato della donna. Per le mafie, sono mine vaganti non per quello che possono rivelare ai magistrati, ma soprattutto perché simboleggiano il tramonto di un modello culturale».
L’Unità 11.02.12