Crolla l´occupazione nella grande industria italiana. In sei anni, quelli che preparano e seguono la Grande Crisi (2005-2010), le imprese perdono l´8 per cento dei loro addetti. E intanto il lavoro si trasforma: 7 dipendenti su 10 entrano da precari, altrettanti escono quando scadono i contratti, se incentivati o licenziati. E quest´ultima voce mette il turbo, a conferma che l´articolo18 dello Statuto dei lavoratori forse è solo un falso problema. I licenziamenti fanno un balzo in avanti di oltre un terzo, raggiungendo nel 2010 il 7,5 per cento del totale delle uscite dal 5,5 del 2005. In sei anni sono cresciuti del 36,4 per cento. E dopo un 2011 di stagnazione, è già recessione. Si entra da precari e dunque si esce presto. Quando scade il contratto, quando l´azienda incentiva l´uscita o quando arriva il licenziamento. In sei anni, dal 2005 al 2010, nelle grandi aziende italiane con più di 500 addetti l´occupazione è calata del 2,9%: crollata nell´industria (-8%), a galla nei servizi (+0,2%). A farne le spese soprattutto gli operai, peggio nell´industria e specialmente nel biennio “horribilis” 2009-2010. Un flusso – un turnover, come lo definisce l´Istat nel Focus sui flussi occupazionali diffuso ieri – sempre più “flessibile”, ovvero incerto. Sette lavoratori su dieci sono assunti con contratti a tempo. Uno su due è fuori alla scadenza e la maggior parte dei restanti è incentivata a lasciare il posto o peggio licenziata. Questo il quadro dell´Italia alle soglie di un anno di recessione e con la fiducia degli imprenditori, certificata ieri sempre dall´Istat, ai minimi dal 2009 e per le aziende del commercio addirittura dal 2003.
COME SI ENTRA
Il 71,5% dei nuovi ingressi nel periodo 2005-2010 è avvenuto grazie a contratti a tempo determinato, soprattutto nei servizi (73,6%). I picchi più alti si sono registrati nel commercio all´ingrosso e al dettaglio (87,2%) e nella ristorazione e alloggio (82,1%), che più di altri in questi sei anni hanno fatto ricorso a contratti flessibili. Il contratto a termine è la forma regina della flessibilità, seguito da stagionale e apprendistato. La grande industria italiana ha applicato l´assunzione a tempo indeterminato solo nei confronti di impiegati, funzionari e dirigenti. Gli operai, falcidiati da crisi e ristrutturazioni, hanno avuto la peggio.
COME SI ESCE
La scadenza del contratto ha determinato quasi la metà (il 47,3%) delle uscite registrate tra il 2005 e il 2010. Peggio nel terziario (52,8%), meglio nell´industria (34,8%). In altri termini, non c´è stato bisogno di licenziare o applicare l´articolo 18. Finito il contratto, fuori. Le “cessazioni spontanee”, che sono anti-cicliche e che fino al 2008 erano un terzo delle uscite, con la crisi si sono contratte: si lascia un lavoro solo se si ha garanzia di trovarne a breve un altro. In parallelo, sono lievitate le “cessazioni incentivate” e per licenziamento. Le prime erano il 9% del totale nel quadriennio 2005-2008, ancora relativamente tranquillo, salite al 13% nel 2009 e al 12% nel 2010 (anno di timidi segnali di ripresa, poi uccisi dalla stagnazione del 2011). I licenziamenti erano il 5% annuo nel periodo 2005-2008. Diventano il 6,7% nel 2009 e il 7,5% nel 2010 con punte preoccupanti nelle attività manifatturiere (14,3%) e nelle costruzioni (18,4%). E parliamo di aziende molto grandi, con più di 500 addetti, dove in teoria l´articolo 18 si applica ancora.
SALDO TRA INGRESSI E USCITE
La differenza tra assunti e fuoriusciti ha presentato un saldo positivo – osservano i ricercatori Istat – nel biennio 2006-2007 e negativo nel triennio 2008-2010, quando le imprese hanno imbarcato sempre meno addetti e sfoltito manodopera. In particolare, l´Istat individua tre fasi distinte: una di crescita economica (2005-2007), una di crisi (dalla seconda metà del 2008) e una di leggera ripresa nel 2010. Nel corso della crisi, si ricorda, vi è stato un ampio uso di cassa integrazione. Altrimenti i numeri sarebbero stati ben peggiori.
La Repubblica 31.01.12