Da tempo il tema della diseguaglianza non aveva il rilievo di questi giorni nel dibattito pubblico. Martedì il presidente Obama, nel discorso sullo stato dell’Unione, ha indicato quale sfida centrale del nostro tempo la creazione di un società in grado di distribuire all’intera popolazione, e non a pochi privilegiati, i benefici della crescita economica.
Il progressivo aumento della concentrazione di redditi e ricchezza è un processo in atto nelle economie avanzate a partire dagli anni Settanta, quando si è invertita la tendenza in atto dei decenni precedenti, in cui la crescita sostenuta si era accompagnata a una riduzione delle diseguaglianze.
Se solo ora il problema è avvertito come rilevante è perché la crisi finanziaria ha tolto credibilità all’illusione, a lungo alimentata, che la ricchezza ai vertici della scala sociale avrebbe prima o poi coinvolto tutti gli strati della società. Non solo. Ha tolto credibilità anche all’idea che la diseguaglianza fosse anzi essa stessa motore di crescita, in quanto fonte di incentivo e stimolo. La difficoltà in cui versano le economia più ricche sta dunque creando una seria crisi di legittimità. Soddisfare la domanda di equità è un problema tutt’altro che banale nel momento in cui il sistema di protezione sociale e di redistribuzione tramite il bilancio pubblico viene da molti considerato un lusso che non possiamo permetterci.
Non è soltanto questione di giustizia. Molte ricerche hanno evidenziato come la disuguaglianza sia associata a una cattiva performance rispetto ad importanti indicatori di qualità sociale: il tasso di mortalità, la salute (es. l’incidenza di malattie mentali), la frequenza di omicidi e violenze, la diffusione di sentimenti di ostilità e razzismo, gli abbandoni scolastici, si presentano con maggiore frequenza in Paesi caratterizzati da livelli più elevati di disuguaglianza. Non si tratta dell’ovvia constatazione che questi fenomeni sono più diffusi perché ci sono più poveri; il dato rilevante è che in società più diseguali la qualità della vita è peggiore anche per coloro che hanno un reddito medio o medio-alto, quando li si confronti con individui di pari reddito in società più egualitarie. Le società più egualitarie sono insomma società in cui si vive complessivamente meglio.
Con riguardo alle determinanti della crescita della diseguaglianza nell’ultimo quarto di secolo, un recente e accurato rapporto dell’Ocse tenta un bilancio. Accanto alle spiegazioni che sottolineano fattori strutturali e almeno in parte al di fuori del controllo delle politiche, quali la globalizzazione (in particolare i processi di delocalizzazione produttiva) e lo sviluppo tecnologico (che ha accentuato i divari di produttività tra lavoratori con minore o maggiore abilità), viene evidenziata la rilevanza dei processi di riforma del mercato del lavoro, in special modo la loro liberalizzazione e la conseguente crescita di disparità nelle retribuzioni, e della minore volontà o possibilità di attuare politiche redistributive, soprattutto a partire da metà anni Novanta.
E se la graduatoria vede all’estremo negativo le economie liberali di mercato (gli Stati Uniti e il Regno Unito) e all’altro estremo quelle del Nord Europa, che riescono a conciliare crescita e bassa diseguaglianza, anche l’Italia si colloca tra i Paesi ad alta diseguaglianza. Da noi il fattore determinante non è dato tuttavia dalle remunerazioni individuali, almeno tra i lavoratori dipendenti; la disuguaglianza si manifesta semmai nei redditi familiari, e dunque la ragione della cattiva performance va ricercata in fattori quali la scarsa partecipazione femminile al lavoro (e quindi l’alto numero di famiglie monoreddito) o l’incidenza di lavoro atipico, caratterizzato da elevata discontinuità e retribuzione mediamente più bassa rispetto al lavoro stabile.
Si conferma insomma la centralità della questione del lavoro. Un ulteriore richiamo alla necessità di ripensare una strategia che si è affidata unicamente alla flessibilità, e a mettere in campo politiche orientate ad aumentare la partecipazione al lavoro (soprattutto femminile e giovanile) e ridurre la “precarizzazione”. Se è vero quanto suggerisce lo stesso rapporto dell’Ocse, che la chiave è rappresentata da politiche che incoraggino l’investimento in capitale umano, un’efficace strategia di riduzione della diseguaglianza nel nostro Paese deve da un lato destinare risorse adeguate al sistema di istruzione, dall’altra favorire l’investimento on-the-job (sul posto di lavoro) da parte di imprese e lavoratori. Un investimento che, come ogni altro, richiede salvaguardie e un orizzonte sufficientemente stabile. Come dire che, anche da questo punto di vista, la riduzione delle tutele sul lavoro appare la direzione sbagliata da percorrere.
da l’Unità del 30 gennaio 2012