memoria

"Non vita quotidiana all'interno dei campi", di Gian Antonio Stella

L’oltraggioso contrasto tra le tavole imbandite dei carnefici e le mischie feroci tra gli affamati per contendersi il pane

«A l di là della strada lavora una draga. La benna, sospesa ai cavi, spalanca le mascelle dentate, si libra un attimo come esitante nella scelta, poi si avventa alla terra argillosa e morbida e azzanna vorace, mentre dalla cabina di comando sale uno sbuffo soddisfatto di fumo bianco e denso. Poi si rialza, fa un mezzo giro, vomita a tergo il boccone di cui è grave e ricomincia. Appoggiati alle nostre pale, noi stiamo a guardare affascinati. A ogni morso della benna, le bocche si socchiudono, i pomi d’Adamo danzano in su e poi in giù, miseramente visibili sotto la pelle moscia. Non riusciamo a svincolarci dallo spettacolo del pasto della draga».
Bastano queste righe tratte da Se questo è un uomo per avere un’idea di cosa significasse avere fame in un lager nazista. «Non appena il freddo, che per tutto l’inverno ci era parso l’unico nemico, è cessato, noi ci siamo accorti di avere fame» scrive Primo Levi: «Il lager è la fame: noi stessi siamo la fame, fame vivente». E racconta di un giovane viennese, Sigi, che «ha diciassette anni e ha più fame di tutti quantunque riceva ogni sera un po’ di zuppa da un suo protettore, verosimilmente non disinteressato». Il ragazzo, alla vista di quella benna che divora e mastica la terra, «racconta senza fine di non so che pranzo nuziale e ricorda, con genuino rimpianto, di non aver finito il terzo piatto di zuppa di fagioli». (…)
Avevano alle spalle secoli di fame, gli italiani avviati nei lager nazisti. Eppure mai si erano confrontati con quella fame feroce descritta da Primo Levi. Tanto più feroce perché del tutto estranea alle carestie e alle catastrofi «naturali». Ma legata esclusivamente ai capricci scellerati dei carnefici. E resa ancora più insopportabile dal quotidiano, straziante, oltraggioso contrasto con quanto quei carnefici avevano a pranzo e a cena sulle tavole loro.
La triestina Nerina De Walderstein, sopravvissuta ai lager di Auschwitz, Birkenau, Flossenbürg, Plauen, ha raccontato in Testimonianze dai lager, di Rai Educational, l’insulto di certe kapò polacche: «Erano peggio delle SS! Se c’è una cosa che detesto, che non sopporto, sono proprio le polacche! Perdonami, Polonia, ma è così! Tutte quelle che sono state là, hanno subito le angherie delle bloccove e dalle blocstube… La notte, loro mangiavano, bevevano, si divertivano… Le sentivamo mangiare e bere, mentre noi, quasi morte di fame, eravamo là a languire. E loro erano pasciute… Nessuna era magrolina: erano tutte tonde, forse anche troppo, perché sfiguravano con noi…».
I profumi degli spezzatini, delle minestre d’orzo, degli stinchi di maiale che venivano dagli alloggiamenti dei carnefici erano una tortura per chi tentava disperatamente di tirare avanti con una tazza di brodaglia o «quelle rape grattugiate, secche, che gettavano dentro in questa chibla di acqua bollente». Era una tortura mangiarle, quelle rape: «Perché erano come tanti aghi che mandavi giù, ti grattava la gola, tante volte piangevi… Prima di mangiare piangevi, poi mangiavi, perché sapevi che non c’era altro. Si mangiava quello che si trovava, però i nostri maiali mangiavano veramente meglio». E tutti lì, ad aspettare la «festa grande» della domenica: «Ti mettevi in fila, ti davano una patata, era festa… La tua festa della domenica: una patata con un pochino di margarina…».
Per questo il libro Padelle, non gavette di Fausto Carriero e Michele Morelli è un piccolo, delizioso miracolo. Perché quei due militari internati prima nel campo di concentramento di Leopoli e poi a Wietzendorf, nella Bassa Sassonia, riuscirono prodigiosamente a conservare, nelle condizioni più difficili (per quanto i due lager non fossero campi di sterminio e i carcerieri fossero probabilmente meno spietati che in altri mattatoi nazisti), una straordinaria vena ironica e autoironica. E il loro quaderno di ricette e memorie gastronomiche, con quelle elaborate leccornie dai nomi abissalmente lontani dalla grama vita quotidiana nelle baracche («Charlot di frutta», «Scorze d’arancio, limone e cedro caramellato», «Chantilly», «Chifel imbottiti»…) e accompagnati da quei teneri disegni che ricordano le illustrazioni dei vecchi sussidiari o di Giamburrasca, è un regalo prezioso. Che ci aiuta, grazie alla pubblicazione che avviene finalmente quasi settant’anni dopo per merito di Fausto Morelli, figlio di Michele, a capire come l’uomo, anche nei momenti più cupi, spaventosi, disperati, possa trovare in se stesso la forza di sopravvivere aggrappandosi alla fantasia, al sogno, all’ironia.
Certo, questa ironia, nelle condizioni bestiali di certi lager, a volte non era proprio possibile. Bruna Bianchi, nel libro Deportazione e memorie femminili, riprende una pagina di Aucune de nous ne reviendra dove l’autrice Charlotte Delbo «ricorda quando lei e le compagne, impietosite dall’aspetto degli uomini che si dirigevano al lavoro in colonna, decisero di raccogliere il pane che le ammalate non si lasciavano persuadere a mangiare e di lanciarlo agli uomini al di là dei reticolati. “È subito mischia. Afferrano il pane, se lo contendono, se lo strappano. Hanno occhi da lupo. Due di loro rotolano nel fossato e il pane sfugge loro dalle mani. Li guardiamo battersi e piangiamo. La SS urla, aizza il cane contro di loro. La colonna si ricompone, riprende la marcia. Sinistra. Due. Tre. Non hanno rivolto la testa verso di noi”».
Lo stesso Elie Wiesel, che pure non difetta di quella dote straordinaria degli ebrei che è proprio l’ironia, ricorda ne La notte la sua liberazione solo con parole crude: «Il nostro primo gesto di uomini liberi fu quello di gettarci sulle vettovaglie. Non pensavamo che a quello, né alla vendetta né ai parenti: solo al pane…» (…).
Sì, il meraviglioso «gioco» di Carriero e Morelli in certi lager non sarebbe stato possibile. Appena c’era un piccolo pertugio di umanità nel quale infilarsi, però, erano diversi i prigionieri che ci si infilavano. Lo testimoniano, tra le altre, le memorie di Karla Frenkel, un’ebrea tedesca che riuscì a sopravvivere ad Auschwitz e Bergen Belsen: «Il nostro accompagnatore fisso era la fame e il nostro patrimonio la nostra “scodella”, noi la tenevamo sempre sotto il vestito, stretta al corpo, senza di essa eravamo perdute, perché chi non aveva una “scodella” non poteva ricevere la sua “zuppa” ed era così condannata alla morte per fame… Due donne avevano una mania, cucinavano sempre, confrontavano ricette e addirittura litigavano se una “voleva cucinare in modo diverso”, a volte intervenivano altre che avevano migliori versioni o non erano d’accordo su come questa o quella “voleva cucinare”…». (…)
Lo conferma ne Le memorie dei sopravvissuti Myrna Goldenberg: «Le discussioni sulle ricette richiamavano alla mente delle donne la vita precedente, quando avevano una loro posizione in famiglia e nella comunità… Ma contribuivano anche a ricordare alle donne quante risorse avessero a disposizione per assistere gli altri, come casalinghe e cuoche fantasiose. Condividere i ricordi riaffermava il senso dell’esistenza di una comunità e scambiarsi le ricette in un contesto in cui l’affamamento era pianificato aveva quindi paradossalmente un effetto terapeutico, se non altro per il lungo tempo che le discussioni occupavano». Quello era il punto: parlare di manicaretti e ricette «aveva un forte effetto psicologico, poiché rappresentava un impegno per il futuro».

Corriere della Sera 26.1.12

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“Online la lista degli ebrei finiti nei lager”, di Antonio Carioti

S ono online da oggi, all’indirizzo www.nomidellashoah.it. Adulti, anziani e bambini, maschi e femmine. Sono i nomi e i dati anagrafici dei circa 7.200 ebrei italiani che vennero deportati dai nazisti durante l’occupazione tedesca dell’Italia tra il 1943 e il 1945.
In grande maggioranza perirono nei lager, meno di un migliaio riuscirono a salvarsi: «A differenza di quanto hanno fatto siti analoghi realizzati in altri Paesi (Israele, Francia e Olanda), abbiamo deciso di mettere sul Web anche i dati dei sopravvissuti, perché furono comunque perseguitati e deportati» precisa Liliana Picciotto, autrice del Libro della Memoria (Mursia) che costituisce la base da cui è partita questa iniziativa del Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec) per il giorno che celebra l’apertura dei cancelli di Auschwitz da parte dei sovietici, il 27 gennaio 1945. Mancano al momento gli ebrei dell’isola greca di Rodi (all’epoca possedimento italiano), che furono deportati in massa: sono altri 2.000 nomi che dovrebbero aggiungersi nel corso del 2012: «In agosto siamo andati a Rodi e abbiamo raccolto i dati: si tratta solo di avere il tempo di elaborarli».
Sempre quest’anno l’elenco delle vittime italiane sarà consegnato, nel corso di una cerimonia ufficiale, al sacrario israeliano dell’Olocausto, dove è stato allestito, all’interno del sito www.yadvashem.org, il Database of the Shoah Names Victims, in cui si possono già consultare i dati di circa tre milioni di persone sterminate.
Il sito italiano si apre con una schermata di circa ottanta nomi, scritti in corsivo: «È il nostro omaggio alle vittime — spiega Liliana Picciotto — una sorta di monumento digitale. Ogni giorno la homepage cambierà, con nuovi nominativi in ordine alfabetico, fino a completare l’elenco. Poi si ricomincerà da capo. Invece alla maschera di ricerca per trovare i singoli individui abbiamo dato una forma sghemba, in modo da esprimere il senso di disagio che si prova di fronte a un crimine così immenso: c’è anche la copertina del Libro della Memoria, come segno di riconoscimento nei confronti dell’editore Mursia, che si prese molti anni fa l’impegno di pubblicare il mio lavoro».
Di ogni vittima si trovano la data, il coniuge, il luogo d’arresto e quello di deportazione. Per una parte è disponibile anche la fotografia. «Il sito — precisa Liliana Picciotto — non è rivolto soltanto agli studiosi, che potranno facilmente accedere ai nostri dati da ogni parte del mondo, ma anche ai parenti dei deportati, nella speranza che possano fornire ulteriori notizie sui loro cari e magari foto di famiglia in cui siano effigiati, per arricchire la documentazione e dare ancora di più il senso di quella spaventosa tragedia».

Corriere della Sera 26.1.12

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“Mauthausen. Briciole di pane per farci sgozzare”, di Silvia Truzzi
Gianfranco Maris, deportato nel ’44: “Dite ai giovani cos’era il nazismo”

In piazza Partigiani d’Italia, su un tram diretto nei pressi di via Montenapoleone, a pagina 83 di un libro bianco si legge: “Ho visto nella mia baracca, che si andava svuotando perché tutti stavano uscendo per andare alle docce, un compagno deportato, che non conosco, di cui non so neanche la nazionalità, mentre nascondeva nel suo giaciglio un grosso pezzo di pane. È stato in quel momento, quando ho visto il pane, che la fame mi si è presentata come idea. Un’idea che non mi abbandona, che continua a seguirmi nel buio che scende mentre sto andando verso le docce”. Per ogni pidocchio cinque bastonate (Mondadori, 126 pagg. – 17,50 euro, a cura di Mi-chele Brambilla) è la storia di una deportazione, andata e ritorno dalle tenebre dell’umanità. A Mauthausen, Gianfranco Maris c’è arrivato il 7 agosto del ’44: oggi ha 91 anni, un sorriso per nulla incline alla resa e una memoria senza indulgenze né lacrime. Presidente nazionale dell’Aned (Associazione nazionale ex deportati politici) dal ’78, senatore dal ’63 al ’72 poi membro del Csm, comunista da quando aveva 17 anni, avvocato penalista, riceve ancora nel suo studio.
Perché non ha rubato quel pezzo di pane?
Vede, organisieren è la parola tedesca che gli stessi nazisti diffondevano. Ti rubavano una cosa, tu lo dicevi al kapò e ti sentivi rispondere: “Organisieren, organisieren“. La legge del campo era: ti hanno rubato gli zoccoli, rubali a qualcun altro. Che a sua volta li ruberà. Quel giorno ero sconvolto dalla fame: l’organisieren diventa l’idea che mi domina. All’ultimo momento mi rendo conto che rubando venivo ricondotto alla logica del torturatore. E dico no. Ricordo che tremavo, tremavo per aver pensato che proprio io avrei potuto “organizzare”. Non c’era atto dei tedeschi che non fosse finalizzato alla distruzione dell’uomo.
A cosa pensa?
Al pane, sempre. Ce lo portavano in filoni da un chilo. Un giorno era per otto persone, un giorno per 12: è arrivato a essere per 24. Ce lo davano intero: dovevamo dividerlo noi. Volevano che noi ci sgozzassimo per una briciola. Le briciole erano vitali. (L’avvocato fa rabbiosamente il gesto di raccogliere le briciole con le dita).
E come facevate?
Avevamo fabbricato un bilancino e un coltello. Noi non volevamo diventare nemici. Il pane aveva un significato morale.
Ha mai cercato negli occhi delle Ss un motivo, una spiegazione?
Avevo intuito che se ti mettevi dalla parte della vittima, non avevi scampo. Era impossibile capire tanta ferocia. Lì o eri vivo lavorando o eri morto. I sistemi per sopravvivere li trovavi facendo funzionare il cervello. Tutti quelli che sono stati uccisi, prima di perdere le forze avevano smarrito la lucidità. Quando noi eravamo inquadrati per l’appello i tedeschi fumavano. E poi buttavano la cicca. Allora i prigionieri vicini si buttavano per terra per raccogliere le cicche e fare una boccata. Io li rimproveravo: non volevo che si abbassassero, proprio letteralmente, a raccogliere i loro avanzi.
È stata la disciplina militare a salvarle la vita?
È stata la ragione. Io ho cominciato subito a chiedermi perché ci facevano fare certe cose. Per esempio quando siamo arrivati al campo siamo stati per 15 giorni nudi con un cappello in testa: ci facevano ripetere ossessivamente il gesto di levare e mettere il cappello. Ci volevano ridurre a un’obbedienza meccanica. In cava io lavoravo con il professor Cuneo: un uomo debole nel corpo, ma di cultura formidabile. Portare le pietre con lui era faticoso, ma importantissimo. Ci faceva lezioni sui processi formativi del colonialismo francese o sulla Restaurazione del 1814. Poi avevo organizzato che il giro dopo lo facevo con un altro e gli riportavo la lezione. E la catena continuava. Gli altri, nei momenti di pausa, dicevano: “Mi ricordo gli agnolotti di mia madre”. Ecco, quelli erano destinati alla morte.
Scrive di non essere stato felice il giorno della Liberazione. Perché?
Il 5 maggio a Mauthausen arrivò una camionetta. Esplose un entusiasmo delirante. Dalla torretta vedevo i miei compagni festeggiare e pensavo: sì, siamo salvi. Ma quanti di noi sono morti? Sì, siamo vivi. Ma che cosa abbiamo pagato? Mi vennero in mente alcuni versi che Ungaretti scrisse sull’Isonzo durante la Prima guerra mondiale: “È il mio cuore il paese più straziato”.
Cosa succederà quando l’ultimo testimone sarà morto?
Un’associazione di ex deporta-ti a un certo punto scompare: per questo ho chiesto e ottenuto di creare, all’interno dell’Aned, una fondazione che raccolga e metta a disposizione gli archivi, senza cui il negazionismo sarebbe facile, facilissimo. Io non voglio che si perda la coscienza di cos’è stato il fascismo. La memoria oggi è solo la rievocazione sentimentale delle sofferenze. Non basta. Domani, come accade sempre nel Giorno della memoria, gli studenti andranno ad Auschwitz, vedranno le baracche, i forni, i visi dei morti. Escono e non sanno cos’è stato il fascismo, cos’è stato il nazismo.
Sa di non aver mai pronunciato la parola dolore?
(Silenzio e silenzio ancora. Gli occhi di Gianfranco Maris sono attraversati da un lampo disperatamente tempestoso). È vero. Io ero in guerra, contro un nemico che era nel mio cuore. Pensavo: devo restare vivo per ammazzarli dopo.

da il Fatto 26.1.12