La recessione, i guasti della finanza, la ricerca di alternative: ecco perché anche i teorici del sistema economico dominante lo mettono in discussione. Cinque anni dopo il disastro del 2008 non ne siamo ancora usciti. Tramonta l´illusione di essere di fronte a un normale evento ciclico. La concorrenza tra paesi rischia di incoraggiare una competizione verso il peggio, dove tutti si adeguano al livello più basso
Il capitalismo ha un deficit mortale: di autostima. La crisi di fiducia in se stesso traspare dai dibattiti che animano due dei più influenti media economico-finanziari. Il Financial Times e The Economist dedicano inchieste, dibattiti e analisi a un interrogativo esistenziale: quella che viviamo è una crisi “terminale” o è ancora curabile all´interno delle regole di un´economia di mercato? Ha più probabilità di sopravvivenza il capitalismo di Stato che governa i Bric, cioè Cina India Brasile Russia?
Martin Wolf, l´economista più autorevole del Financial Times, ammette che l´idea di una “estinzione” del capitalismo oggi ha ancora più peso di quanto ne avesse quattro anni fa nell´epicentro della recessione. «Nel 2009 – osserva Wolf – dedicavamo una serie di inchieste al futuro del capitalismo, oggi abbiamo cambiato il titolo e il dibattito ruota sul capitalismo in crisi». La ragione: cinque anni dopo il disastro sistemico del 2008, non ne siamo ancora usciti. Tramonta ogni illusione di avere a che fare con un normale evento ciclico, nella fisiologica “distruzione creatrice”. Chiamando a raccolta i migliori intelletti del mondo angloamericano, il Financial Times conclude che per sopravvivere il capitalismo deve affrontare sette sfide. Sono sette temi familiari, in cima alle preoccupazioni dell´opinione pubblica, presenti nell´agenda dei governi e sugli schermi radar degli espertti.
Al primo posto c´è la questione sociale: lavoro e diseguaglianze. Questo capitalismo ha generato società sempre più ineguali e la sua capacità di creare occupazione declina paurosamente. Le cause sono state individuate in passato nella globalizzazione e nel progresso tecnologico; più di recente si è rafforzata la scuola di pensiero secondo cui le diseguaglianze sono “fabbricate” da un sistema politico dove le oligarchie esercitano un´influenza spropositata.
A questo sono collegati altri tre temi. La questione fiscale, che ieri Barack Obama ha messo al centro del suo discorso sullo Stato dell´Unione: il finanziamento della spesa pubblica si è spostato in modo anomalo sul lavoro dipendente, alleggerendo il capitale. Il dinamismo dell´economia di mercato necessita di profonde riforme fiscali, tanto più in una fase di shock demografico per l´arrivo all´età pensionabile delle generazioni più popolose.
Terza questione, il rapporto fra democrazia e denaro; non è solo politica ma anche economica, perché la deriva oligarchica è una “inefficienza” che distorce sistematicamente le decisioni collettive, vedi le lobby scatenate contro le riforme del governo Monti.
Quarto tema nell´elenco del Financial Times è la riforma del sistema finanziario, un cantiere ancora largamente bloccato nonostante lo shock del 2008. La finanza ha sempre avuto una tendenza degenerativa, analizzata dal grande economista Hyman Minsky: dall´arbitraggio delle opportunità si scivola verso la speculazione, da questa si precipita nella frode. È una storia antica ma le potenzialità distruttive sono amplificate dalla dimensione e interconnessione dei mercati finanziari moderni.
È impossibile aggredire le patologie del sistema bancario senza affrontare la questione della corporate governance (numero cinque): l´azienda moderna ha tradito i principi di responsabilità e di controllo, nel momento in cui l´élite manageriale si è affrancata dagli azionisti, per esempio fissando paghe sempre più stratosferiche e inappellabili.
Il problema numero sei è la questione dei “beni pubblici” in una economia globale: il mercato si è rivelato un meccanismo inadeguato a gestire beni universali ma scarsi come l´acqua, l´aria, le risorse naturali; la sicurezza o l´accesso all´istruzione.
Infine, la settima emergenza riguarda la gestione delle “macro-instabilità” e la concorrenza tra sistemi-paese. Il mercato rischia di incoraggiare una competizione al ribasso: in cui tutti i problemi elencati sopra (diseguaglianze, bassa tassazione dei capitali, saccheggio ambientale) si risolvono in una rincorsa del peggiore, verso il minimo comune denominatore. Ci sono però indicazioni contrarie: per esempio società fortemente egualitarie o meno ingiuste della media (Germania e paesi nordico-scandinavi) che si dimostrano competitive nella globalizzazione.
La questione della concorrenza tra sistemi è quella evocata dall´Economist nell´inchiesta sul ritorno del capitalismo di Stato. La Cina è un modello alternativo la cui forza contribuisce al crollo di autostima dell´Occidente. Anche India Brasile e d statalista ha sempre avuto fortuna nelle fasi di decollo iniziale (dalla Prussia al Giappone, all´Italia dell´Iri), poi con l´arrivo alla maturità le crepe del modello dirigista diventano evidenti. In passato però la crisi dei capitalismi di Stato si confrontava con la forza del paradigma “puro”, quello americano: oggi invece anche nel cuore di questo modello originario il dubbio esistenziale ha messo radici.
da la Repubblica