Ottimisti e attenti al «bene comune», ma già condizionati dalle prospettive di precarietà. Sono i ragazzi fra i 17 e i 21 anni che usano il web, comunicano con gli sms e temono di avere nella vita meno opportunità dei loro genitori
Ottimisti, attenti alle novità, positivamente orientati verso i diritti civili, la convivenza sociale e il bene comune. E naturalmente ipertecnologici. È questa la fotografia dei giovanissimi tra i 17 e i 21 anni. Nel complesso sono soddisfatti del proprio tenore di vita, ma allo stesso tempo, sono titubanti rispetto al futuro, anche perché un giovane su due ha paura di non trovare lavoro. Il 71% è convinto che valga la pena impegnarsi per valori come l’uguaglianza sociale e la solidarietà, piuttosto che puntare sui soldi e sul successo personale. Non si sentono rappresentati nella difesa dei loro diritti, se non parzialmente dai sindacati e dalle istituzioni. Nonostante questo non sono disattenti nei confronti della politica, che seguono prevalentemente attraverso internet o parlandone con gli amici. E, infatti tre giovani su quattro si collocano all’interno di un campo politico, anche se più della metà degli intervistati, se si trovasse davanti la scheda elettorale, non saprebbe quale partito votare.
È la generazione “2.0”, nata dopo la caduta del muro di Berlino, dopo il Caf, gli anni dell’edonismo e del rampantismo. Giovani cresciuti sotto il segno della globalizzazione, della comunicazione mobile, di internet di massa, delle classi multietniche. Bambini diventati adolescenti con le note del Grande fratello, i sentimenti compressi in pochi caratteri scritti sul display del cellulare, i sogni presi in prestito da una pubblicità che trasforma la realtà in videogioco.
Non hanno mai conosciuto la Prima Repubblica. E si sono formati interamente durante gli anni della Seconda. Nonostante questo non hanno mai avuto l’opportunità di eleggere un proprio rappresentante, esprimere un giudizio di merito sui governi che hanno tracciato il loro futuro, dare un indirizzo politico attraverso il voto. Apolidi nella società in cui hanno mosso i primi passi e sono cresciuti.
Troppo giovani per esprimere direttamente una rappresentanza e aver riconosciuto un ruolo. Troppo lontani dal cuore del sistema per dare qualcosa in cambio. Una generazione sulla quale nessuno ha investito nulla; non i politici, alla ricerca di consensi e voti; non le tv e i giornali, perché ci sono copie da vendere e obiettivi di audience da raggiungere; non gli uomini di economia e di azienda perché ci sono obiettivi di mercato da conservare; non gli intellettuali troppo distratti e appagati dai primi tre.
Saranno loro, nei prossimi anni, a pagare i costi di uno sviluppo che insieme all’aria, al suolo, alle risorse naturali, ha consumato quote del loro futuro. In eredità avranno molti debiti e poche certezze, se non quella di condizioni di vita peggiori dei loro padri. Non avranno in dote nemmeno la democrazia che abbiamo conosciuto, figlia dei grandi movimenti e delle grandi sfide del Novecento, ma una post-democrazia, dove i governi nazionali sono condizionati, nelle scelte di politica economica, da una finanza senza regole che distrugge quote di ricchezza reale e quote di democrazia sostanziale.
Vivono gli affanni della precarizzazione che si ripercuote sui progetti di vita. Una percezione che li spinge ad appiattirsi in un eterno presente, con il timore che ogni progetto possa trasformarsi in un insuccesso, tanto più doloroso quanto più inizialmente coinvolgente.
Paure che danno origine ad atteggiamenti che appaio contraddittori: da un lato, i giovani, sono portati ad attivarsi per rincorrere le proprie aspirazioni, dall’altro sono disorientati e lo smarrimento li porta a vivere un’incertezza che appare come una rinuncia ai propri sogni. Una precarietà che si trasforma nella paura di vivere la vita reale, dando corpo a quella cultura del risparmio emotivo che sembra caratterizzare le loro relazioni. Anche perché, nel frattempo, l’io-ipertrofico che ha nutrito l’adolescenza della generazione “2.0” si è definitivamente ammalato, dopo essersi nutrito dei titoli tossici, del valore della conversione dell’etica in euro, dell’espansione verso nuovi mercati e nuovi individui.
Vivono l’assenza di valori, di mode propositive di costumi edificanti, immersi in una società nella quale predominano gli spazi grigi e la notte della coscienza. Seppur attraversati da nuove forme di coinvolgimento sociale e di partecipazione civile, sembra crescere in loro una nuova forma di malattia sociale: la malinconia.
Ecco allora che i buoni sentimenti si declinano in nuove e differenti attese: il senso di un’identità a cui appartenere e con cui riconoscersi, un “altrove” verso cui dirigersi. E l’assenza di risposte alle loro domande li spinge a gesti di esasperata esaltazione e a macabri rituali di devastazione, non più sostenuti da un modello familiare al cui interno, al posto dell’ascolto e della parola, si alternano distratte attenzioni e vuoti silenzi, occasionalmente compensati dall’ultimo modello di cellulare o dall’automobile lanciata a folle velocità.
I progetti di vita individuali non appaiono più sufficienti a restituire significato al senso di vuoto che avvolge i loro destini, ma è proprio da qui, dal sentirsi animati da un peso così poco sostenibile, che affiora un sentimento per un cambio di prospettiva verso un nuovo ordine di valori e di riferimenti. Reclamano parole sulla vita che viene avanti, risposte che indichino quale sia la via da percorrere, una visione e un agire che restituiscano senso all’intera società.
Dalle istanze che avanzano traspare l’esigenza di affermare una nuova identità, in un percorso reso difficile dal fatto ciò che era prima e i valori in cui si credeva sono messi continuamente in discussione. A tutto ciò si reagisce con atteggiamenti di vera e propria inedita conflittualità, un distacco che si colora anche di insofferenza, quando non addirittura di ostilità in un crescendo di contenuti e toni quanto più si accompagna a reciproci disconoscimenti e incomprensioni.
Andranno alle urne per la prima volta per un’elezione nazionale, l’anno prossimo, avendo maturato i pieni diritti politici. Nel frattempo lo scenario all’interno del quale sono cresciuti è cambiato. È calato il sipario sulla Seconda Repubblica e il Paese vive i fermenti e le tensioni che precedono l’entrata in scena della Terza.
La “generazione due punto zero” vive l’ansia di un credito di fiducia mai pienamente accordato. Esprime una domanda di rinnovamento e di riscatto, attende ma non si affida, ha bisogno di strumenti reali per creare e nuovi luoghi dove produrre, per dare vita a un nuovo patto che permetta ai giovani, di conoscersi, capirsi, collaborare, integrarsi reciprocamente, senza omologazioni e senza perdite d’identità.
* presidente di Tecné
da L’Unità