Ci inoltriamo in un recessione economica che potrebbe diminuire il prodotto italiano di oltre il 2%, e abbiamo un governo che ci promette di farlo crescere, nel lungo periodo, dell’11%. Qualcuno può domandarsi se ci propongano fantasie irraggiungibili, imitando i politici, anche il governo tecnico, anche il premier che ogni giorno ripete di non volersi candidare a nulla nella prossima legislatura.
No, una differenza c’è. Quella cifra dell’11% in più – e salari in aumento del 12%, quindi benefici per i lavoratori – viene da studi della Banca d’Italia. Chi li ha fatti ne difende la serietà (sono pubblici da tempo, e dibattuti fra gli studiosi) pur invitando a non essere schematici. Più che un numero o un altro, si indicano delle potenzialità: la scelta di politica economica più promettente è appunto quella delle liberalizzazioni.
Può darsi che gli economisti si sbaglino; negli anni scorsi alcuni di loro avevano contribuito a creare pericolose illusioni. Ma questo è il meglio che ci offrano oggi, nel mondo; tra i punti di riferimento citati nei lavori della Banca d’Italia c’è proprio quel Raghuram Rajan sentito ieri da La Stampa, uno dei pochissimi che la crisi della finanza l’avevano prevista.
Ciò che non va nell’economia italiana è che mancano gli incentivi a darsi da fare. In troppi mestieri è difficile entrare. Troppe attività sono frenate da leggi fatte su misura per proteggere chi già le esercita. La burocrazia mette la sua taglia, implicita o esplicita, un po’ su tutto. Di potenziali imprenditori ce ne sono fin troppi, ma molti di loro trovando tutte le strade sbarrate riescono solo a vivacchiare frodando il fisco.
Gli studi della Banca d’Italia mostrano, con ampi confronti internazionali, che altri Paesi privi di questi difetti se la cavano molto meglio. La sfida è provare ad imitarli. Naturalmente non è detto che l’Italia ci riesca: può darsi che le sue energie vitali siano limitate. Dovremo riconoscere allora di essere un popolo vecchio, capace solo di campare di rendite, avvinghiato a mille piccoli status quo.
La differenza con le promesse dei politici dunque c’è. Per la prima volta dopo una dozzina d’anni chi governa in Italia torna ad avere un progetto. Ad alcuni potrà non scaldare il cuore, ma un progetto c’è. Non se ne sentiva più parlare da quando entrati nell’euro il centro-sinistra non seppe come proseguire da lì, e nel 2000, messo sotto scacco dalle promesse di Silvio Berlusconi, provò ad imitarlo abbassando le tasse in deficit.
Per lunghi anni abbiamo sentito ripetere che i progetti erano roba da intellettuali giacobini, illusi di diventare i pedagoghi delle masse; che invece occorreva assecondare la gente così com’è, scambiando le pulsioni più rozze per la verità della gente com’è. Il risultato è che anche nell’economia ha trionfato la legge del più forte; si è spenta la voglia dei giovani di farsi avanti scaricando su di loro il peso di tutto ciò che non si voleva cambiare.
Ora sappiamo che in fondo a quella china può esserci il default. Anche se riuscissimo ad evitare il default, c’è il declino. La nuova recessione del 2012 non è ormai evitabile, perché dobbiamo prendere atto che, causa errori precedenti, non possiamo più reggere il tenore di vita di prima. La speranza di risalire la china può darcela solo una direzione di marcia coerente.
Il paradosso è che occorrerebbero dei bravi politici per spiegare che cosa si sta facendo; errori di ingenuità possono perfino creare simpatie per i tassisti, come da sondaggio. In certi casi, è vero che le novità nascono da movimenti di protesta; ma per il momento quanto a protesta abbiamo più che altro i «forconi» in Sicilia, dove si chiede o di lasciare tutto come prima o di fare ancora di peggio.
da La Stampa del 22 gennaio 2012