Programmi uguali? Ha cominciato il leader del Popolo della Libertà, con l’accusa al Partito democratico di aver «copiato» quello della Casa delle Libertà del 2001. Hanno proseguito molti commentatori, tra i quali il prof. Ricolfi (La Stampa del 23 marzo), che li ha definiti molto simili.
Vorrei provare a dimostrare – carte alla mano – che i programmi sono decisamente diversi. Meglio, che essi delineano soluzioni nettamente alternative su (quasi) tutti i problemi cruciali della crisi italiana.
Dato il suo carattere pervasivo, sceglierò, a questo scopo, un solo tema: il metodo della concertazione e il modello contrattuale. Si tratta di un tema cruciale, perché strettamente connesso alla questione salariale: famiglie di lavoratori dipendenti che non arrivano alla fine del mese, consumi che languono.
Il Programma del Pd, in premessa, sostiene l’urgenza di una radicale riforma del Patto del 23 luglio 1993. Quel Patto era centrato sull’obiettivo della stabilizzazione economico-finanziaria. È stato decisivo per conseguirla, con l’euro.
Ma già alla fine degli Anni 90, quando è diventato centrale il tema della crescita, della produttività, quel Patto ha mostrato tutti i suoi limiti: se l’obiettivo è la stabilità, è lo strumento del contratto nazionale a svolgere un ruolo fondamentale, mentre la contrattazione di secondo livello (azienda, territorio, distretto) può, al massimo, svolgere una funzione ancillare. E Governo centrale, Confindustria e Sindacati nazionali sono i protagonisti pressoché esclusivi della concertazione.
Strumenti e protagonisti cambiano se l’obiettivo centrale diventa la crescita, lo sviluppo delle capacità competitive del sistema: il contratto nazionale resta importante, ma perde di peso a favore della contrattazione di secondo livello. È infatti in azienda, nel territorio, che i salti di produttività si determinano, sono misurabili e possono essere oggetto di contrattazione, per redistribuire i loro benefici effetti anche a favore dei lavoratori.
E ai vecchi protagonisti, altri (piccole imprese, professioni liberali, cooperative, no profit, sistema delle autonomie) se ne aggiungono. Ciascuno obbligato ad accrescere la sua capacità di rappresentanza degli interessi in gioco: la politica, certo, ma anche le parti sociali. Di qui l’urgenza della (auto)riforma delle regole della rappresentanza.
Si spiega così la scelta del Programma del Pd: riduzione della pressione fiscale (agendo sull’Irpef o con la contribuzione figurativa) sulla quota di salario da contrattazione di secondo livello. Si tratta di un’autentica rottura di continuità rispetto al Programma dell’Unione del 2006, che non proponeva né la riforma del modello contrattuale, né la riforma delle regole della rappresentanza. Non perché questi due problemi non fossero avvertiti. Ma perché non c’era accordo sulle soluzioni da adottare.
Il Programma del PdL, sul punto, è scarno, ma preciso: «Detassazione di straordinari e incentivi legati a incrementi di produttività». Non capisco come si possa dire che si tratta di proposte analoghe o addirittura identiche a quelle del Pd. La riduzione delle tasse sugli straordinari, infatti, può essere anche considerata positivamente (il governo Prodi è intervenuto eliminando la sovracontribuzione in vigore fino al 2007), ma non c’entra nulla né con la produttività (ci può essere – e infatti ce ne sono a migliaia – un lavoratore molto produttivo che non fa un minuto di straordinario), né con la contrattazione.
Nel Programma del PdL manca qualsiasi riferimento alla negoziazione tra le parti sociali, al modello contrattuale e al metodo della concertazione.
Dimenticanza? Via, non scherziamo. Tutta l’esperienza di governo del 2001-2006 – che proprio il leader del PdL richiama costantemente a base del lavoro futuro: «Riprenderemo dove abbiamo lasciato» – è la prova provata di un orientamento sostanzialmente ostile sia alla concertazione come metodo di governo, sia allo sviluppo della contrattazione tra parti sociali più forti e capaci di effettiva rappresentanza degli interessi.
sen. Enrico Morando, estensore del Programma del Partito democratico – La Stampa