attualità, politica italiana

"La frustrazione e la democrazia", di Massimo Giannini

Un brutto giorno per la democrazia. La tentazione di liquidare così la decisione della Consulta sui referendum elettorali c´è, ed è forte. È comprensibile la delusione di quel milione e 217 mila cittadini: pur avendo firmato per l´abrogazione del «Porcellum», ora si sentono defraudati di un diritto che rende unica la nostra Costituzione e deprivati di uno strumento partecipativo che esalta la democrazia diretta. È legittima la «disperanza» di molti altri milioni di italiani: pur non avendo aderito alla raccolta delle firme, guardavano ai quesiti referendari come a una «leva» fondamentale, per sbloccare finalmente le resistenze conservative della famigerata casta, altrimenti immobile e irresponsabile. L´ultima chance per il cambiamento, ancora una volta, è affidata alla credibilità istituzionale e alla persuasione morale del presidente della Repubblica. Tocca di nuovo a Giorgio Napolitano, dopo la decisione della Corte, scuotere i partiti dal torpore, e inchiodarli alle loro responsabilità di fronte al Paese. Il vertice sul Colle con i presidenti di Camera e Senato, e il comunicato ufficiale che ne è scaturito subito dopo la pronuncia dei giudici costituzionali, testimonia l´urgenza di questo impegno che il Capo dello Stato esige adesso dal Parlamento. E conferma che il Quirinale è in campo, anche sul tema della riforma elettorale, e non assisterà in silenzio a questa accidiosa «vacanza» della politica.
Ci sarà modo e tempo per riflettere sugli aspetti tecnici che hanno convinto i giudici ad assumere questa decisione. Le ragioni giuridiche che spingevano verso un sì ai quesiti non mancavano. Molti costituzionalisti, in assenza di precedenti specifici che la escludono, ritenevano e ritengono fondata la cosiddetta «reviviscenza» delle norme precedenti a quelle abrogate per via referendaria. Dunque, cancellato il «Porcellum», sarebbe tornato in vita il «Mattarellum». La Consulta, evidentemente, ha raggiunto una conclusione diversa: in caso di abrogazione della legge attuale, la cosiddetta «normativa di risulta» non sarebbe stata né chiara né coerente. E un pericolo di «vuoto normativo», in materia elettorale, non è sostenibile. C´è solo da chiedersi se quello che i giuristi definiscono l´«horror vacui», nel caso concreto, non fosse comunque preferibile all´«orrore puro» costituito dal sistema elettorale vigente.
Nel frattempo, si deve comunque rispetto per il verdetto della Corte. La frase è retorica, ma le sentenze si rispettano anche se non si condividono. Noi non la condividiamo, ma non per questo la bolliamo come un «atto di regime», meno che mai riconducibile a una «regia occulta» del Capo dello Stato. Certo, è una «sentenza politica», ma come lo sono tutte quelle che interpretano le leggi, nelle quali si riflette qui ed ora la volontà del popolo sovrano, le inquadrano o le aggiornano al contesto storico e le misurano con i parametri della Costituzione. In questo senso, è possibile che ai margini abbia influito sui giudici un condizionamento meta-giuridico, cioè il sospetto di un qualche legame politico tra l´esistenza del «governo strano» di Monti e la sopravvivenza della legge elettorale più «strana» del mondo. Ma se anche esistesse o fosse esistito, questo è un nesso improprio, che non tiene di fronte a una verifica contro-fattuale.
Corte o non Corte, il sistema elettorale vigente resta una vergogna italiana, che ha privato gli elettori del diritto di scegliere i propri eletti, ed è servito solo a garantire quello che i costituenti di Filadelfia avrebbero definito un vero e proprio «dispotismo elettivo». C´è un nome e cognome, al quale imputare questa vergogna: Silvio Berlusconi, l´ultimo giapponese del «Porcellum». Insieme al povero Bossi, non a caso, è l´unico a dire ancora oggi che quella «è una buona legge». Si capisce perché. La legge-truffa di fine 2005 nasce nel rozzo laboratorio padano di Lorenzago e porta la firma simbolica di Calderoli. Ma origina dal delirio di onnipotenza del Cavaliere, che ne ha bisogno per non perdere le elezioni del 2006 per stravincere quelle del 2008. Questa curvatura personalistica delle regole del gioco elettorale, costruite a misura dell´urgenza politica di un solo uomo, marchia a fuoco le sorti della Seconda Repubblica, e ora rischia di condizionare anche i destini della Terza. Il centrodestra berlusconiano aveva ed ha tuttora l´esigenza di eliminare lo svantaggio competitivo che soffre con il sistema dei collegi uninominali (nelle elezioni del 1996 e del 2001, con il «Mattarellum», ottenne alla Camera un milione e mezzo di voti in meno tra la parte maggioritaria e quella proporzionale). Il pessimo rendimento «coalizionale» di allora (riflesso della scarsa coesione del suo elettorato) è un handicap che il centrodestra non ha mai colmato, ma semmai ha accentuato in questi ultimi anni.
Per questo Berlusconi e Bossi, a dispetto delle sortite di propaganda dei figuranti Alfano e Maroni, continuano a preferire il «Porcellum» a qualunque altra formula. Piuttosto che perdere, quell´amalgama mal riuscito di Pdl e Lega preferisce tenersi una legge elettorale schifosa. Un mostro giuridico che, dietro allo specchietto per le allodole di un apparente bipolarismo, produce più frammentazione tra i partiti (rendendo fragile la governabilità in virtù del potere di ricatto attribuito ai «minori») e meno partecipazione tra i cittadini (cancellando il diritto di scegliere i candidati in virtù dell´abominio delle liste bloccate).
Questa è la gigantesca ipoteca che grava su quest´ultimo anno e mezzo di legislatura. I partiti convergono, a chiacchiere, sull´urgenza di riformare il sistema. Tutti si accodano ai richiami solenni di Napolitano che, come aveva già fatto nel discorso alle Alte Cariche del 20 dicembre e poi nel messaggio televisivo di Capodanno, frusta i partiti e il Parlamento e li esorta a «non sprecare» il tempo che ci separa dal voto del 2013 per varare le grandi «riforme istituzionali» utili al Paese. Proprio a partire da quella elettorale. Ma le condizioni politiche per riuscirci restano tuttora labilissime. Le proposte non mancano. Dalla porcata di Calderoli si può uscire con l´adesione a un sistema compiutamente proporzionale, attraverso l´abolizione di un assurdo premio di maggioranza, e senza troppi sofismi intorno alle differenze tra modello tedesco o modello spagnolo. Oppure se ne può uscire con l´adesione a un modello compiutamente maggioritario, attraverso la reintroduzione dei collegi uninominali e senza troppi cavilli intorno alle differenze tra modello inglese a un turno o modello francese a due turni. Quello che manca è la convenienza del Cavaliere e la convergenza di tutti su una piattaforma comune e condivisa.
La legge Berlusconi-Calderoli è un Frankenstein da abbattere. Oggi, in Occidente, non esistono democrazie consolidate che miscelano sistemi proporzionali e premi di maggioranza. Solo a Malta esiste qualcosa che si avvicina all´obbrobrio italiano. Il Parlamento può ancora sanare questa anomalia. Avrebbe il dovere morale e politico di farlo. Servirebbe un sussulto di dignità e di responsabilità. Un sì della Consulta avrebbe trasformato quel sussulto in un obbligo. Il no lo ridimensiona a una «facoltà». Per questo, purtroppo, il pessimismo della ragione prevale ancora una volta sull´ottimismo della volontà. I partiti italiani, colpevolmente auto-sospesi, sono ridotti a ectoplasma della Repubblica. Il sondaggio di Ilvo Diamanti, uscito su questo giornale lunedì scorso, li retrocede a un miserabile 4% di «indice di fiducia» da parte dei cittadini. In questo clima, come ha avvertito Gustavo Zagrebelsky, la pronuncia della Corte può alimentare la «frustrazione» degli elettori, e ingrossare l´onda già altissima dell´anti-politica. Sta agli eletti decidere se lasciarsi travolgere, o provare a domarla con le riforme. Solo così un brutto giorno per la democrazia potrà trasformarsi nella sua grande occasione.

La Repubblica 13.01.12