La crisi che da oltre quattro anni sta scuotendo i sistemi economici dei principali Paesi industrializzati non solo ha reso incerto, drammaticamente incerto, il futuro di ceti e classi sociali che avevano un lavoro, un reddito, che avevano raggiunto il benessere. Essa sta acuendo, soprattutto, le difficoltà dei giovani, che da troppo tempo si trovano a vivere uno stato di precarietà che non consente loro un progetto di vita, lavorativa, affettiva, esistenziale.
Questa volta, diversamente da quanto accadde quarant´anni orsono, la “questione giovanile” non si scontra con una classe dirigente distratta dinanzi alle richieste di libertà e di partecipazione alla formazione delle decisioni. Questa volta i giovani muovono dalla consapevolezza che senza un lavoro, senza la responsabilità di una propria famiglia, senza un sistema in grado di fornire un aiuto nei momenti critici, le parole libertà, partecipazione, diritti, doveri – che furono la sintesi del programma di conquiste politiche, sociali, economiche dei loro genitori – rischiano di restare pure espressioni verbali. Quelle parole, se svilite nel loro significato profondo, svuotate del loro contenuto rendono concreto il rischio di nuovi “ismi” (populismo, egoismo, eccetera), di lacerazioni del corpo sociale, di contrapposizioni violente.
Più considero gli “eventi” nei quali siamo immersi, più mi vado convincendo che questi sottendono fenomeni vasti e sicuramente più profondi, che abbisognano di riflessione, di analisi meditate, senza cedimenti a semplificazioni buone a catturare l´attenzione dei media; a guadagnarsi un invito al talk show di turno; inutili per innalzare di un solo millimetro il livello di comprensione.
«Punto memorabile della storia in cui finisce una serie di avvenimenti e ne comincia un´altra» recita alla voce epoca il Grande dizionario della lingua italiana, fondato da Salvatore Battaglia.
La definizione mi ronza in testa con l´insistenza con cui ci assale e ci tormenta il verso di una poesia o di una canzonetta; in libera associazione con le immagini degli impiegati della Lehman Brothers che in un pomeriggio di settembre del 2008, raccolti i pochi oggetti personali in qualche scatola, varcano per l´ultima volta l´uscio di quello che fino a poche ore prima era il loro luogo di lavoro.
Quelle fotografie hanno fatto il giro del mondo. Dietro l´obiettivo non c´era un Robert Capa o un Nick Ut, ma a me pare che, a modo loro, siano anch´esse immagini-simbolo, come il miliziano spagnolo o la piccola vietnamita nuda e piangente sulla strada, nei pressi di Saigon. In sé, rimandano a una normalità banale, quanto può esserlo il trasferimento del contenuto di qualche cassetto o di un armadio. Si rivestono del dramma nel contesto che fa loro da sfondo. Assurgono a simbolo di un mondo che forse è già alle nostre spalle, un “mondo di ieri”.
Certo, diversamente da quello di Stefan Zweig, il nostro mondo non è la felix Austria, in cui «violenze e radicalismo apparivano quasi impossibili in un´epoca della ragione», ma una realtà planetaria schiacciata sotto il peso di una complessità dai risvolti drammatici. Un groviglio di questioni gravi e di portata enorme: dalle disuguaglianze alle guerre, al terrorismo, allo sfruttamento rapace e suicida delle risorse naturali e dell´ambiente. Su scala ridotta, limitata al solo mondo industrializzato, è la realtà delle nostre società, baluardo di civiltà, modelli sperimentati di democrazia, dove l´arte di governo va facendosi sempre più difficoltosa, sovente sfiorata da un velo di opacità. Società frantumate da un coacervo di interessi contrastanti, che la politica fatica a comporre e a ricondurre all´unità superiore dell´interesse generale. Società dove prevale una «individualistica dissociazione dal bene comune». Società “liquide” dove si è smarrito un qualsiasi punto di consistenza.
I mutui subprime, in cui ravvisiamo il prologo del dramma tuttora rappresentato sulla scena mondiale, sono stati, va da sé, nient´altro che una miccia. La deflagrazione mi induce a formulare ancora una domanda retorica: come è potuto accadere? Dove erano i banchieri, i regolatori, le autorità di vigilanza nazionali e sovranazionali? Non per annettermi meriti personali, ma solo per essere stato a lungo membro della comunità dei banchieri centrali non posso non ricordare quanta parte avesse la stabilità del sistema finanziario nell´agenda dei lavori e negli ordini del giorno dei nostri incontri mensili a Basilea, presso la Banca dei regolamenti internazionali e in quelli annuali al Fondo monetario internazionale; con insistenza martellante veniva ricordato ai responsabili delle banche quale fosse la loro “missione”, in uno con l´attività consustanziale alla banca: fornire credito all´economia.
In anni più recenti, si è fatto strada, in proposito, un fraintendimento che colloca nelle priorità del banchiere il pur meritevole obiettivo della «creazione di valore per gli azionisti». La responsabilità dell´imprenditore, e quindi anche del banchiere, va oltre l´impresa; si estende al ruolo che egli ha nella collettività.
Sono consapevole che la dimensione globale dei mercati ha reso tutto tremendamente più complesso; tuttavia, mi chiedo se il vento della modernità, della deregulation, non abbia finito per scompaginare un po´ troppo quelle nostre agende “vecchio stile”.
L´enorme massa di crediti di pessima qualità è stata la carica esplosiva che ha fatto saltare un edificio gigantesco, eretto sulla sabbia da costruttori senza scrupoli e in spregio a quel minimo di regole cui anche un «geometra» di modesta esperienza si sarebbe attenuto. Tecnici altamente specializzati, padroni di competenze “ingegneristiche” sofisticate, hanno applicato le loro raffinate conoscenze per innalzare edifici dalle linee ardite, spericolate, sfidando le leggi dell´economia. Prima ancora, hanno sfidato la legge morale; legge che consente di distinguere il consesso umano dalla foresta.
Brillanti e corteggiati operatori; istituzioni blasonate, con i loro top managers ricoperti d´oro quali novelli Goldfinger e dispensatori, con “fervore evangelico”, del loro verbo dalle colonne dei più prestigiosi fogli finanziari; ascoltati e temuti guru di governi e autorità pubbliche, disinvolti e agili nell´attraversamento di porte girevoli sempre in funzione. Ebbene, questi sono gli stessi soggetti che hanno fatto della finanza (quella finanza che dai manuali di economia apprendemmo essere al servizio della produzione, dello scambio, dello sviluppo) la foresta dove appagare appetiti ferini, dove impera la legge non scritta del cinismo, del disprezzo di ogni valore che non sia quello del guadagno, del successo, del potere, obiettivi rincorsi in un crescendo delirante in cui si spezza qualsiasi ragionevole legame tra desiderio e appagamento.
La Repubblica 11.01.12