Mario Monti ha ripetuto che «fra qualche settimana» ci saranno novità per la Rai. Del resto, l’attuale vertice scade a marzo. Da Monti ci si aspetta, da più parti, che all’azienda di Viale Mazzini – sul cui valore strategico egli, giustamente, insiste – vengano tolte le catene che le ha gettato addosso il centrodestra con la pessima legge Gasparri. Catene ribadite dalla maggioranza del CdA ossequiente ai voleri del titolare del Biscione e quindi del duopolio Mediarai. Pertanto, o Monti riesce a compiere un’operazione analoga a quella realizzata nel ‘93 dal governo Ciampi grazie alla legge che affidava al presidente della Camera, Napolitano, e a quello del Senato, Spadolini, la nomina dei 5 componenti del CdA (presidente incluso), oppure ben poco di realmente nuovo potrà fare in materia. La legge n. 206 – che avrebbe dovuto essere completata “alla francese” coinvolgendo cioè nelle nomine pure il Quirinale – è durata undici anni, sino alla sciagurata legge Gasparri.
Lo ricordo perché l’emergenza centrale in Rai era e rimane chi deve garantire l’essenza, la missione del servizio pubblico Rai-Tv. Monti ha parlato di un esecutivo molto ridotto, 3 elementi, più un amministratore delegato. Tre mi sembrano pochi per un’azienda così vasta, articolata, complessa. Quanto all’Ad, la Rai già lo ebbe in anni lontani (l’ultimo fu il socialista Luciano Paolicchi nel ’71), ma non è che dissipasse le ombre della lottizzazione partitica, la quale pure all’epoca avveniva a livelli alti (il direttore dell’unico Tg, per quanto oggetto di non poche critiche, era Villy De Luca, un gigante dell’informazione rispetto ad Augusto Minzolini).
Il problema, per me, continua a stare “a monte” del CdA ristretto e dell’Ad unico. Bisogna vedere se si vuole recidere il cordone ombelicale della legge Gasparri fra governo, addirittura presidente del Consiglio, e gestione della radiotelevisione pubblica. In Europa vi sono altri sistemi di garanzia oltre a quello francese del Conseil Supérieur de l’Audiovisuel: c’è il sistema tedesco, complicato ma efficiente, c’è quello inglese della Fondazione alla quale sono conferite le azioni della tv pubblica e che è retta da governors, o garanti, nominati dalla Regina su indicazione del governo. Ma siamo, come si vede, in tutt’altri climi se è vero che Bbc ha mantenuto sostanzialmente integra la propria autonomia con ogni maggioranza di governo. Governors che a loro volta nominano e controllano il vertice operativo di Bbc.
L’altra garanzia fondamentale delle emittenti europee è il canone: elevato (e onorato). Si va dagli oltre 300 euro della Svizzera (radio inclusa, da noi è gratis), ai 264 dell’Austria, ai 216 di Norvegia e Svezia, ai 210 di Germania, ai 187 di Gran Bretagna, ai 150 di Irlanda. Evasi, in media, solo dall’8 %. Mentre da noi il canone ordinario lo evade il 27 % e quello speciale (aziende, alberghi, ecc.) quasi tutti. “Balla” così circa 1 miliardo di euro. E 865.000 abbonati risultano morosi. C’è una Italia dove 8 su 10 pagano (Toscana, Liguria, Emilia-Romagna, Alto Adige, Firuli-Venezia Giulia, ecc.) e un’altra dove la metà non paga (Campania, Calabria, Sicilia). Ci sono Comuni, tutti nel Ferrarese, dove fa il suo dovere il 99 % degli utenti, e Comuni del Casertano dove il 90 e più, al contrario, evade. Basterebbe recuperare metà dell’evasione e la Rai incasserebbe 500 milioni riducendo di molto la dipendenza da spot.
Secondo il Censis però, il canone Rai è la tassa più “odiata” dagli italiani, molto di più di Irpef o Ici. Perché non vedono nei programmi Rai (eccettuata Rai3, la sola a guadagnare ascolti da anni) un servizio pubblico, una tv diversa da Mediaset, perché non reggono ai troppi spot, perché l’autorevolezza è stata fatta scemare e poi crollare dai direttori alla Mimun e alla Minzolini, ecc. È una delle prime piaghe da curare. In assoluto. E però, anche con la Rai attuale, così sfibrata dai suoi “nemici”, ne vale di certo la pena.
L’Unità 10.01.12