Il 2011 si è chiuso su una scena minore ma emblematica del nostro futuro comune. Sull’asfalto di piazza Tahrir al Cairo un gruppo di soldati poco tempo fa si accaniva a calci sul corpo trascinato a terra di una donna che partecipava a una protesta. Noi, cittadini del tempo mediatico globale, guardavamo in diretta e con orrore al salire e scendere degli scarponi, alla nudità esposta della ragazza, al chador simbolo di pudicizia così impudicamente strappato, per altro da uomini di fede musulmana. Ma l’incredibile per i nostri occhi era in realtà il colore del reggiseno che da tanta nudità spuntava. Un azzurro brillante, vezzoso, che rivelava il segno di una cura tutta femminile evidentemente universale, identica a se stessa, sotto un austero chador come sotto un altrettanto austero tailleur di lavoro.
Molti dei leader nazionali e internazionali per le cui mani passeranno nel 2012 decisioni che avranno rilevanza sui destini di tutti noi, sono donne. E non è un caso. Continuate a leggere, cari lettori uomini, perché qui si parla anche di voi.
L’elenco delle leader si conosce bene. Tre per tutte: Angela Merkel, cancelliera tedesca, Hillary Clinton, segretario di Stato americano, e Christine Lagarde, direttore del Fondo Monetario Internazionale. Per una volta l’Italia sembra essersi velocemente messa al passo – e non è infatti cosa da poco che in un Paese piagato dai ritardi come il nostro, oggi il più delicato dei dossier sociali, quello del lavoro, sia nelle mani di tre donne: il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, il segretario della Cgil, Susanna Camusso, e il ministro del Welfare, Elsa Fornero.
E che portafogli molto rilevanti, come quello della Giustizia e dell’Interno, siano affidati a Paola Severino e ad Annamaria Cancellieri.
Nel 2011 sembra in effetti arrivata a pieno sviluppo un’onda lunga di riconoscimenti alla sapienza femminile, con l’ingresso generalizzato delle donne ai livelli più alti della gestione del potere. Dal premio Nobel a tre leader africane – il cui lavoro in verità è stato riduttivamente tradotto in impegno «umanitario» – all’economia, alla politica, all’editoria. In Usa ad esempio, nel 2011 si sono affermati tre nuovi editori, Tina Brown, Arianna Huffington e Oprah Winfrey. In un periodo di crisi profonda dell’informazione tradizionale, hanno rilanciato il settore, innovandolo, cambiandone il linguaggio, ma anche risanando bilanci, producendo profitti e, nel percorso, diventando anche personalmente molto ricche, cosa che non guasta.
La portata di queste eccellenze femminili è una buona indicazione del volume di pressione da cui sono state spinte in alto. Negli ultimi anni, ma nel 2011 in particolare, il protagonismo di massa delle donne ha abbracciato il globo e le culture. Con una trasversalità ben più ampia di quello femminista degli Anni Sessanta, che fu limitato ai Paesi più avanzati.
Oggi, a molti mesi dai vari accadimenti, possiamo dare un giudizio più chiaro delle rivolte che hanno scosso il mondo l’anno scorso. Si capisce oggi così che la Primavera chiamata araba, al di là dello scontento mediorientale (che sconterà sicuramente tutti i condizionamenti delle vicende specifiche di ciascun Paese), è parte di un fenomeno più generale. Ha svelato una nuova modalità politica, una richiesta di trasparenza e partecipazione individuale che rompe con la tradizionale intermediazione fra cittadini e governanti. Protesta delle nuove classi colte della globalizzazione, dei figli della tecnologia e dei diritti universali, partita non a caso dalla più repressiva (in tutti i sensi) delle culture, quella araba, eppure, altrettanto non a caso, capace di germogliare anche dentro modelli tra loro agli opposti, come quelli dei due ex imperi, la Russia e gli Usa. Formando un unico circuito che svela le somiglianze che oggi esistono sotto la pelle delle differenze, come, appunto, quel reggiseno azzurro sotto la stoffa del chador.
Il punto è che queste proteste non sarebbero quello che sono senza la partecipazione femminile che le anima. Dalle donne viene infatti la più «pesante» richiesta di eguaglianza che scalpita in questo mondo così attraversato dall’impazienza e dalle domande. Loro è la pienezza del diritto individuale: la conquista della cittadinanza piena. E loro è la maggioranza numerica. Dall’Iran alla Russia, passando per l’Europa fino agli Usa, quella che finora è stata chiamata «la metà del cielo» può ormai essere definita tranquillamente maggioranza. Nelle scuole del mondo il numero delle laureande si avvia a superare quello dei colleghi uomini, così come il numero della partecipazione politica. Cito un paio di cifre per tutte: in Usa il 58% degli studenti universitari di tutte le facoltà, scientifiche incluse, è femmina. E donne sono la maggioranza di chi va a votare, cioè il 60%.
Tutto questo significa che, al di là di ogni nozione romantica dello sviluppo di genere, le donne sono oggi il settore più in movimento dentro la globalizzazione, il fattore la cui espansione può diventare il motore effettivo non solo della ripresa ma anche di una diversa organizzazione economica.
Dietro l’influenza delle leader sta maturando, dunque, un vero e proprio nuovo paradigma del rapporto fra donne e potere. Ma questo rapporto è efficace e significativo, come abbiamo tentato di spiegare, se non è concepito solo come movimento di vertice e al vertice. Una questione di «quote rosa» o programmi speciali, per intenderci. Se i governi attuali, incluso quello italiano, affondano con coraggio le mani nel serbatoio di aspirazioni, insoddisfazione, ambizione e talento che ribollono nelle piccole mani e grandi teste delle nuove generazioni femminili.
La Stampa 09.01.12