Riscuotere le tasse è un mestiere difficile. Su Equitalia, però, vanno respinte facili demagogie e sottolineate alcune scomode verità. E va ricordato che il decreto Salva Italia contiene importanti misure che ne migliorano il rapporto con il contribuente e ne riducono i costi. Misure, peraltro, ulteriormente migliorabili. No alla demagogia. Equitalia nasce nel 2005 e rende pubblica la riscossione coattiva dei tributi. In precedenza il settore era gestito da 36 società concessionarie, di proprietà di 54 banche e di 35 soggetti privati, operanti in 94 ambiti provinciali con strutture e metodologie spesso differenti fra loro e con forte insoddisfazione del cliente del servizio, e cioè delle amministrazioni pubbliche.
Vincenzo Visco commentò così la riforma: «La riscossione coattiva è una funzione pubblica ed è quindi giusto che venga nazionalizzata». Insomma, non è ammissibile alcuna incertezza, soprattutto da parte di chi riveste responsabilità politiche, nella difesa della riscossione pubblica. Equitalia può e deve migliorare, ridurre i costi, migliorare la qualità, ma i suoi addetti svolgono una funzione fondamentale per l’intera collettività. Gli incassi derivanti dai ruoli gestiti da Equitalia sono aumentati da 3,8 a 8,9 miliardi fra il 2005 e il 2010, un dato lusinghiero in termini di efficacia della riforma del 2005. Non si tratta però di «proventi della lotta contro l’evasione», come spesso è stato propagandato dal precedente governo, perché le somme iscritte a ruolo sono importi già accertati, che il contribuente deve soltanto pagare (a meno di errori). La lotta all’evasione avviene in una fase precedente a quella del pagamento delle tasse, e cioè nella fase dell’accertamento dei redditi e dei volumi d’affari effettivi. Non si tratta neppure di grandissimi numeri. Anzi, se si tiene conto che Stato e Inps girano a Equitalia ruoli oscillanti ogni anno fra 45 e 50 miliardi, sui quali i pagamenti ottenuti in sede di riscossione sono nel 2010 di 7,4 miliardi (degli 8,9 miliardi di incassi 2010, 1,4 appartengono a ruoli di enti non statali, in particolare enti locali e regioni), ci si rende facilmente conto che le percentuali effettive dei pagamenti sugli importi teoricamente dovuti sono basse, molto al di sotto del 10 per cento di ciascun ruolo annuale. Qui intervengono molti fattori: i ruoli possono essere “sporchi”, e l’amministrazione finanziaria deve aumentare la sua efficienza anche nel riconoscere gli errori; il debitore può essere in oggettivo stato di difficoltà finanziaria, e avere davvero difficoltà a pagare, soprattutto in questi anni di grande crisi economica.
Il decreto Salva Italia ha introdotto tre rilevanti novità, passate finora sotto silenzio.
Primo, in presenza di un comprovato stato di difficoltà finanziaria sarà possibile rateizzare i pagamenti (una facoltà già prevista fin dall’ultimo decreto “mille proroghe” del governo Prodi) fino a 72 mesi, e cioè per un periodo di ben sei anni.
Secondo, il piano dei pagamenti non dovrà essere necessariamente a rata costante, e sarà quindi possibile una rateizzazione crescente, che impatti meno in questa fase di crisi e scommetta sul ripristino di migliori condizioni nel corso dei sei anni.
Terzo, viene superato il sistema dell’aggio esattoriale, che Equitalia ha ereditato dai
vecchi concessionari privati ma che è ormai incongruo con la sua natura pubblica. Al posto dell’aggio viene introdotto il diritto al rimborso dei costi, con una formula molto simile a quella del “price cap” riconosciuto ai gestori di qualsiasi servizio pubblico e con l’obiettivo scritto in legge di una riduzione dei costi a carico del contribuente. Unico neo: si prevede che la sostituzione del sistema dell’aggio avvenga fra due anni. È decisamente un po’ troppo, e va chiesto al governo lo sforzo di attuare questa importante misura entro il 2012. Per completare la riforma, infine, occorre investire con intelligenza sulla ristrutturazione organizzativa di Equitalia, già in fase di attuazione, e sciogliere i nodi, ancora abbastanza ingarbugliati, dei suoi rapporti con gli enti locali.
L’Unità 08.01.12
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“PARASSITI FISCALI”, di Domenico Rosati
Comunque lo si giudichi, l’episodiodi Cortina che ha portato alla scoperta di un popolo di poveri in fuoriserie, ha prodotto un effetto-verità mettendo a fuoco l’esistenza e la consistenza politica (un partito, una lobby, una loggia?) del favore di cui hanno godutoe godono in Italia gli evasori fiscali. C’è uno scarto tra gli spot coniati dall’ultimo Tremonti che raffigurano l’evasore fiscale come un “parassita della società” e certe reazioni, tra lo scomposto e l’impudico, di quelli che ne hanno assunto il patrocinio. Se parassita è colui che vive sulle fatiche altrui, ci si dovrebbe rallegrare quando si riesce a neutralizzarne qualcuno. E invece si leva alto il compianto per il carattere “persecutorio” che l’atto dovuto che lo smaschera assumerebbe quando fa titolo sui telegiornali. Se questo accade, significa che si è toccato un nervo sensibile e si è penetrati in un “non detto” della realtà italiana che da tempo è abituata a convivere con quella peculiare “struttura di peccato” consistente nel non pagare le tasse. Pare che i cittadini dell’Urbe trovassero sempre un buon motivo per farlo: una volta perché comandava il Papa e una volta perché comandavano i carcerieri del Papa. Ma l’abitudine è dovunque estesa e radicata. E c’è sempre una scusante: dalla iniqua “tassa sul macinato” imposta anche ai cafoni dopo l’Unità, al prelievo forzoso sui depositi bancari legato al nomedi Giuliano Amato, il film non cambia: c’è un potere prevaricatore che “spreme il limone” del popolo. E questo, giocoforza, si difende con la frode e l’inganno. Il tutto è poi diventato dottrina con l’affermazione per cui, oltre una certa soglia di prelievo, il sottrarsi ai doveri fiscali sarebbe legittima difesa. Ed è giusto ricordare il momento in cui, nello scorso agosto, Berlusconi confessò che il suo cuore sanguinava per aver dovuto, smentendo se stesso, “mettere le mani nelle tasche degli italiani”.
Tutto questo dà risalto al discorso con cui il Presidente Monti ha esposto un vero mutamento di paradigma con il proposito, rovesciato, di mettere le mani nelle tasche degli evasori e quindi con na netta inversione di rotta rispetto alla linea morbida tenuta dai governi, eccezion fatta per la breve stagione di Visco. Si tratta di un’opzione che appare credibile sia per l’introduzione di alcuni strumenti innovativi d’accertamento delle infrazioni e sia – soprattutto – per il rifiuto di calcolare a scomputo del debito i proventi del contrasto all’evasione, come s’era tentato di fare in estate alimentando la diffidenza europea. L’impressione è dunque che su questo capitolo il disegno governativo appare serio e, quel che più conta, viene preso sul serio, come mostra la prova empirica della moltiplicazione di scontrini e ricevute fiscali a ridosso del Capodanno in Cadore. Ma se è vero che la trasgressione dei “doveri inderogabili di solidarietà” ha forti radici, non basterà una passata di pettine per eliminare i parassiti. Soprattutto si dovrebbero attivare sul tema tutti i centri in grado di concorrere ad una grandiosa opera di pedagogia civica. Tutti. Una volta Romano Prodi lamentò che i parroci non facevano prediche sull’argomento; e nel Dizionario della Dottrina Sociale della Chiesa si legge che “il magistero non si è mai pronunciato in modo sistematico sulle questioni tributarie”. Eppure, movendo dal comandamento del non rubare, si può giungere a quanto affermato ultimamente dal Presidente della Cei a proposito di “questo cancro sociale” che sta “soffocando l’economia e prosciugando l’affidabilità civile delle classi più abbienti”. Uno spunto da non archiviare.
L’Unità 08.01.12