I contratti d’acquisto dei 131 cacciabombardieri di ultima generazione vanno rivisti Non si tratta solo di risparmiare denaro pubblico. Va ripensato il modello di difesa, eliminando inefficienze e storture. La sola prospettiva seria è l’integrazione europea. Non è solo questione di risparmiare in una situazione di crisi. La sfida è un’altra e ben più ambiziosa: tagliare per rendere più efficiente, funzionale, produttivo il nostro sistema di Difesa. Ridurre le spese militari non significa sottrarsi ad impegni assunti dall’Italia in organismi sovranazionali, dall’Onu alla Nato, ma orientare gli investimenti, razionalizzandoli, operando di «forbice» e non di «mannaia». A partire dalla vicenda al centro da giorni di un acceso dibattito politico: l’acquisto da parte del nostro Paese di 131 caccia bombardieri F35. L’Italia dovrebbe iniziare ad acquistare i primi quattro aerei quest’anno. Gli altri, entro il 2023. La spesa totale aggiornata è di almeno 15 miliardi di euro considerando che per i progetti aeronautici, i costi maggiori si hanno proprio per il mantenimento e la gestione dei mezzi aerei. I velivoli dovranno essere consegnati due anni dopo la firma del contratto d’acquisto. In termini monetari, ciò si traduce in un costo annuo medio per l’Italia di 1.250 milioni. Dal 2012 al 2023, infatti, la spesa va dai 460 ai 1.495 milioni di euro all’anno.
Una spesa eccessiva, un investimento da rimodulare e non solo perché siamo in una situazione di crisi. Ridurre, non azzerare. Senza che questo comporti una «diminutio» italiana nel sistema politico-militare internazionale e senza che una sospensione comporti una penale. Parlamentari e analisti ascoltati da l’Unità concordano sul fatto che 131 caccia non servono e che è ragionevole una riduzione degli acquisti a 40-50. Ciò porta con sé la necessità di aprire un tavolo con i nostri partner internazionali e riflettere, in quell’ambito, se quel proramma ha davvero un futuro e, se sì, quale. Nessun obbligo, dunque, tanto più che anche Stati Uniti e Gran Bretagna stanno procedendo al rallentamento del programma F35, con riduzione di ordini e ripensamenti graduali.
Un ripensamento strategico che non riguarda solo Washington e Londra. Norvegia, Canada, Australia e Turchia hanno di recente messo in discussione la loro partecipazione al programma, in qualche caso arrivando a una vera e propria sospensione, mentre in Olanda la Corte dei conti ha aperto un dossier sull’argomento.
Ma il dossier che l’Italia dovrebbe aprire al più presto è più ampio e ambizioso, investendo il complesso delle nostre spese militari con una visione strategica e non ragionieristica. Una necessità che non sembra sfuggire al ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola: «Oggi lo strumento militare, così come è strutturato, non è più sostenibile. Questa è la realtà. E la realtà, oggi, impone una revisione dello strumento per conservare ciò che più conta, la sua operatività e la sua efficacia..»: così Di Paola nel tradizionale messaggio di fine anno rivolto al personale, civile e militare, della Difesa. Revisione dello strumento militare significa, ad esempio, riflettere sulla dimensione dei nostri investimenti in armamenti. Non ci sono solo gli F35, ma l’ultima trance del programma per i caccia Eurofighter (5 miliardi); l’acquisto di 8 aerei senza pilota (1,3 miliardi); l’ acquisto di 100 nuovi elicotteri NH-90 (4 miliardi); l’acquisto di 10 fregate Fremm (5 miliardi); 2 sommergibili militari (1 miliardo); il programma per i sistemi digitali dell’Esercito che costerà alla fine oltre 12 miliardi di euro. Un ripensamento che deve riguardare anche la dimensione quantitativa delle nostre Forze Armate.
Questi i dati: le Forze Armate italiane contano complessivamente 178.600 unità (Esercito 104.000; Marina 32.300; Aeronautica 42.300). La Gran Bretagna conta, compessivamente, 177.00 unità in divisa; la Germania 152.000; la Spagna, 135.000; l’Olanda 44.700; il Canada, 41.800. Molti analisti, non certo tacciabili di veteropacifismo, considerano l’organico delle nostre Forze Armate eccessivo, non giustificabile dal nostro impegno in missioni all’estero né funzionale ad una visione più dinamica, e integrata, di un moderno ed efficiente sistema di difesa.
La riduzione ipotizzabile è di 30-40mila unità. Ma l’anomalia italiana, in questo campo, investe un dato che non ha eguali tra i Paesi europei a noi dimensionabili, e anche oltre: il rapporto tra stipendi del personale e bilancio complessivo della Difesa. Il bilancio 2011 della Difesa prevede 14 miliardi di euro. Anche considerando i fondi per le missioni si arriva a 15,5 miliardi di euro. E di questo totale ben 9,5 miliardi sono destinati al personale: oltre i due terzi del bilancio. La spesa per il personale invece di diminuire è aumentata di quasi l’1%: un incremento che non risponde di certo a criteri di «buona amministrazione».
Quanto alla «dieta» declamata dal Governo Berlusconi-Tremonti-La Russa, rimarca generale Leonardo Tricarico (ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica e socio della Fondazione Icsa), i tagli non hanno abolito gli sprechi ma hanno inciso «sugli stanziamenti per l’esercizio, ossia addestramento, manutenzione e infrastrutture»: insomma, un disatro.
Riflette in proposito Andrea Nativi, curatore del Rapporto Difesa 2011 della Fondazione Icsa: «La situazione della Difesa italiana è sempre più precaria perché si continua a rimandare quell’intervento complessivo di razionalizzazione che tutti i partner stanno realizzando o hanno già realizzato…». L’Italia ha perso tempo prezioso. E il costo del «non decidere», rileva sempre Nativi, «è elevato perché si continuano a sprecare soldi mantenendo una struttura inadeguata e perché i partner si stanno muovendo». Rischiamo di rimanere gli unici a non aver dato mano alla ristrutturazione delle Forze Armate. Un ben triste primato. Triste e costoso.
L’Unità 04.01.12
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