Il Patto di stabilità interno, per come è oggi, è per i Comuni una prigione. E contraddice i cardini dell’impostazione del nuovo governo. Monti ha parlato di risanamento, crescita ed equità. Ma la norma che regola i rapporti tra Stato ed enti locali nella sua cecità, non distinguendo tra spesa corrente e spese per investimenti, non tiene conto né del nesso tra risanamento e crescita né dell’equità».
Racconta Piero Fassino che il giorno dopo l’annuncio che Torino avrebbe sforato il Patto di stabilità per il 2011lo hanno chiamato altri sindaci, parlamentari, ma anche quattro esponenti del governo: «Hanno tenuto a dirmi che ritengono sia necessario ridisegnare quel patto». E dal particolare dei vincoli di spesa si passa al generale di un governo che per il sindaco di Torino «adesso deve mettere in campo misure per la crescita che diano ai cittadini la certezza che i sacrifici richiesti produrranno risultati».
Partiamo dalla sua decisione di non rispettare il Patto di stabilità per il 2011: cosa la motiva?
«Una necessità, quella di far fronte agli impegni presi nei confronti della comunità torinese».
Gli enti locali hanno però preso un impegno con l’amministrazione centrale riguardante i vincoli di bilancio.
«Se avessi rispettato i tetti di spesa previsti dal Patto di stabilità avrei dovuto tagliare 120 milioni di servizi, cioè asili nido, scuole, trasporti pubblici, assistenza domiciliare agli anziani. E questo non è pensabile. Così come non lo è dilazionare ancora per mesi i pagamenti ai fornitori, professionisti e imprese che hanno prestato opere per la nostra comunità e che era giusto pagare. Sforare il Patto di stabilità mi ha consentito di pagare a imprese 450 milioni di euro, 250 in più che se avessi rispettato il tetto di spesa. E non mi sembra di poco conto, in un periodo di crisi in cui se un’impresa chiede un prestito alle banche si vede applicare un interesse del 10%».
Rientrerete nel 2012?
«L’obiettivo è questo, riducendo la spesa corrente senza deprimere gli investimenti».
Come pensate di farlo?
«Ci sarà una riorganizzazione delle aziende partecipate, verranno bandite gare per l’ingresso dei privati fino al 40% nelle società di servizi pubblici, proseguiremo l’azione di valorizzazione immobiliare e di trasformazione urbana».
Qual è il messaggio che vuole inviare al governo con la sua scelta?
«Una sollecitazione ad aprire un negoziato con i comuni per riscrivere il Patto di stabilità. Con il decreto varato nelle scorse settimane l’esecutivo ha esplicitato che intende aprire il confronto su questo. Bene, ora bisogna muoversi in questa direzione».
Riscriverlo per modificarlo come?
«Il Patto di stabilità è cieco perché oggi non distingue tra spesa corrente e spesa per investimenti. Per fare un esempio, Torino ha un indebitamento come quello di Catania. Ma a Torino si è costruito la metro, il passante ferroviario, il termovalorizzatore, le opere per le olimpiadi, quelle per i
150 anni dell’Unità d’Italia. A Catania tutto questo non c’è. Non si può calcolare il debito nello stesso modo, senza ragionare sui motivi per cui si è accumulato, senza pensare che aver investito vuol dire aver contrastato la crisi, aperto cantieri, attirato capitali, aiutato l’aumento dell’occupazione».
L’ha chiamata qualcuno dal governo dopo che ha annunciato il mancato rispetto del Patto di stabilità?
«Mi hanno chiamato tanti sindaci e parlamentari, per esprimermi piena condivisione, e anche quattro esponenti del governo».
Cosa le hanno detto?
«Che ritengono anche loro sia necessario ridisegnare il Patto. È opportuno farlo in tempi rapidi, anche perché per come è oggi contraddice i cardini del risanamento, della crescita e dell’equità citati da Monti fin dal suo insediamento».
Sul resto delle misure adottate ritiene che questi cardini siano stati rispettati dal governo?
«Sì, sta facendo quel che deve fare. Sappiamo che questo è un governo di emergenza, nato in una congiuntura economica e politica particolarmente critica, che richiede uno sforzo straordinario. Si è ricorso a una grande personalità, che può ridare fiducia in Italia e in Europa, che ha l’autorevolezza per guidare il Paese in una transizione difficile».
Pensa che i cittadini capiranno anche quando vedranno in concreto quanto costerà questo passaggio?
«La transizione comporta l’adozione di provvedimenti severi. È importante, e il governo lo ha detto fin dal primo giorno, che i sacrifici chiesti ai cittadini per risanare i conti pubblici siano accompagnati da politiche per l’occupazione, lo sviluppo e la crescita, che si dimostri ai cittadini che i sacrifici faranno uscire il Paese dalla crisi».
Il principio dell’equità le sembra sia stato rispettato, finora?
«La manovra, nell’iter parlamentare, ha subito le correzioni giuste, che hanno portato a una maggiore equità. Penso in particolare alla rivalutazione delle pensioni più basse e ai provvedimenti di natura fiscale».
C’è altro nel rapporto tra enti locali e governo, oltre al Patto di stabilità, che secondo lei va rivisto?
«C’è un’impostazione generale, portata avanti negli ultimi dieci anni, a cui va messo fine. Quella cioè di scaricare sugli enti locali gli oneri maggiori di una politica di risanamento. L’amministrazione centrale, tra ministeri e aziende statali, rappresenta il 55% della spesa pubblica. A questi enti sono stati chiesti tagli di spesa del 25%, che non sono neanche stati realizzati. Alle Regioni, che rappresentano il 25% della spesa pubblica, sono stati applicati tagli per il 55% delle risorse. E Comuni e Province, la cui spesa non incide per più del 15% sul totale, hanno subito tagli per il 40%. È evidente che questo squilibrio non è più sostenibile. Ci vuole un’inversione di tendenza. La politica di risanamento della macchina pubblica deve incidere significamente sulle spese a livello centrale e gli enti locali devono essere messi in condizione di avere le risorse per onorare gli impegni che hanno nei confronti delle loro comunità».
L’Unità 03.01.12