Nella sua lunga conferenza stampa di fine anno, Mario Monti ha più volte ribadito che non può esserci risanamento senza crescita. Le cifre gli danno ragione: ogni punto in meno di crescita comporta circa mezzo punto di pil di deficit in più, sette miliardi e mezzo aggiuntivi da reperire se si vuole rispettare l´obiettivo del bilancio in pareggio. Ed è vero anche il contrario: la riduzione dell´incertezza sul futuro dell´economia italiana stimolerebbe la crescita dando un grande impulso agli investimenti. Proprio per questo non ha senso alcuno parlare di una fase due nell´azione di governo. Le misure per lo sviluppo, che vengono ora annunciate per metà gennaio, avrebbero dovuto essere varate contestualmente alla manovra per venire approvate prima di Natale. Era quanto previsto, tra l´altro, dagli impegni sottoscritti dal nostro paese in sede europea. A questo punto non possiamo permetterci ulteriori ritardi.
Non c´è fase due anche perché continuiamo ad essere in piena emergenza e dobbiamo dare forti segnali ai mercati prima delle aste di febbraio. Negli ultimi giorni abbiamo assistito a un forte calo dei rendimenti alle aste del Tesoro sui titoli a breve scadenza, accompagnato però da un ampliamento dello spread sul mercato secondario, nonostante i continui interventi della Bce. L´impressione è che molti investitori istituzionali vendano i nostri titoli di Stato prima delle aste per poi riacquistarli alle nuove emissioni soprattutto sulle scadenze più brevi, anche perché non troppo velatamente invitati a farlo. Queste operazioni possono contribuire a contenere la crescita del costo medio del nostro debito pubblico (che paga i rendimenti delle aste), ma peggiorano la posizione patrimoniale delle banche che sono giustamente costrette a valutare i titoli in portafoglio alle condizioni del mercato secondario.
L´indice degli interventi prospettati dal presidente del Consiglio due giorni fa è condivisibile. Le liberalizzazioni e le riforme che riducono il dualismo del mercato del lavoro stimolando gli investimenti in formazione sul posto di lavoro servono per fare aumentare la produttività. Inducono perciò crescita a parità di risorse utilizzate, senza attingere alle dissestate casse dello Stato. Se accompagnate, ad esempio mediante l´introduzione di un salario minimo e al varo della legge sulle rappresentanze sindacali, a misure che rafforzino quel legame più stretto fra salari e produttività che viene esplicitamente auspicato nell´accordo tra sindacati e Confindustria del 21 settembre scorso, le liberalizzazioni e le riforme del mercato del lavoro porterebbero anche a una significativa creazione di nuovi posti di lavoro.
Ma è giunto il momento di andare ben oltre i titoli dei singoli interventi. Se il Consiglio dei ministri ha raggiunto, com´è auspicabile, un accordo al suo interno sulle misure per la crescita, bene che le comunichi al più presto nella loro interezza al Paese. L´indecisionismo del governo Berlusconi ha creato una crescente insofferenza per gli annunci generici di piani prossimi venturi e la crisi ha portato con sé una fatica per le riforme ventilate solo per saggiare le reazioni dell´opinione pubblica, per la politica dei ballon d´essai. C´è oggi tra i cittadini una forte e comprensibile avversione per l´incertezza normativa. Bene perciò definire riforme che tengano già in partenza conto del profilo, della forza e della legittimità dell´opposizione che incontreranno sul loro cammino. Servirà per essere equi e al contempo spezzare il fronte degli interessi corporativi. Ad esempio, la feroce opposizione dei tassisti ad ogni significativo incremento delle licenze si spiega non solo con le perdite che potrebbero soffrire nei loro redditi mensili, ma anche e soprattutto con le pesanti perdite in conto capitale legate alla svalutazione della licenza che pensano di vendere una volta cessata la loro vita lavorativa, come se fosse la loro liquidazione. Per questo sarebbe opportuno assegnare ai taxisti una quota delle licenze di nuova emissione, che potranno così rivendere assieme alla licenza già in loro possesso in modo tale da contenere le perdite in conto capitale. Nel caso del mercato del lavoro non si vede perché mettere in discussione l´articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, quando si può ridurre fortemente il costo dell´incertezza per il datore di lavoro che sta riempiendo un posto vacante permettendogli di assumere con un contratto a tempo indeterminato a tutele progressive.
Infine, più ampio sarà lo spettro delle liberalizzazioni, più convincente potrà essere agli occhi dell´opinione pubblica. Non è solo una questione di equità. Il fatto è che queste riforme tipicamente hanno costi concentrati su platee relativamente ristrette e benefici dispersi su milioni di cittadini. Per rendere maggiormente evidenti i benefici bisogna perciò che ci siano riforme significative su tanti settori di attività. A quel punto il contrasto fra gli interessi corporativi e il bene del Paese risulterà ancora più evidente.
La Repubblica 31.12.11