«Siete vecchi! Vecchi! Vecchi!». Il tormentone di Oliviero Toscani è ripreso nei dati Istat: l’età media degli italiani, che è già a 43,5 anni, è destinata a salire quasi a 50. E andrebbe ancora più su senza gli immigrati. Che in mezzo secolo dovrebbero triplicare. C’è chi si sentirà gelare il sangue. Ma mai come in questo caso i numeri vanno presi con le pinze. E possono aiutare a capire. Gli anziani con oltre 65 anni che sono un quinto (20,3%) della popolazione, dovrebbero nel 2043, cioè fra poco più di tre decenni (il tempo che ci separa, per dire, dal festival di Sanremo segnato dal «Wojtilaccio» di Benigni) passare il 32%. Uno su tre.
Il numero dei bambini e dei ragazzi sotto i 14 anni dovrebbe scendere parallelamente nel 2037 al 12,4%: uno su otto. Mentre cresceranno i pensionati, caleranno gli italiani al lavoro per pagare quelle pensioni e accantonare le proprie: la popolazione in età lavorativa (15-64 anni) scenderà in tre lustri dal 65,7% al 62,8% per precipitare infine nel 2056 a un minimo del 54,3%.
Non c’è Paese al mondo che possa reggere con numeri così. Impossibile.
Men che meno un Paese industriale che tale voglia restare. Ed è in questo contesto che vanno letti i dati sull’immigrazione. Dice dunque l’Istituto di statistica che, sulla base delle tendenze attuali (da prendere con le molle perché la storia prende spesso pieghe inattese), gli arrivi dovrebbero proseguire incessanti con un aumento dei residenti con cognome estero dai 4,6 milioni di oggi a 14,1 milioni nel 2065. Per capirci: «L’incidenza della popolazione straniera passerà dall’attuale 7,5% a valori compresi tra il 22% e il 24% nel 2065».
Ma qui, appunto, bisogna capirci. Partiamo dall’età media: spiega una tabella Istat che gli italiani sono mediamente, in realtà, ancora più vecchi (44,4 anni) e portano sul groppo 12 anni e mezzo in più rispetto agli stranieri, che stanno sotto i 32.
Peggio ancora andrà in futuro se è vero che in quel 2065 preso a riferimento l’età media degli italiani arriverà a 51 anni e otto mesi.
Contro i 43 scarsi dei nostri «ospiti». Insomma, piaccia o non piaccia saranno gli immigrati e i loro figli a pagare in modo determinante le nostre pensioni. Andassero via tutti, saremmo nei guai fino al collo.
Bruno Anastasia, a capo dell’Osservatorio immigrazione di Veneto Lavoro, ha fatto due conti prendendo ad esempio la sua regione, una di quelle che tirano. La popolazione veneta aumenterà nei prossimi vent’anni di circa mezzo milione di abitanti grazie in gran parte ai nuovi arrivi: «È evidente che gli italiani rimarranno costanti solo grazie ai naturalizzati». Di più: se passeranno dal 10% di oggi al 18% fra vent’anni, gli immigrati «nelle classi di età centrali (trentenni-quarantenni) sfioreranno il 30%». Un terzo della forza lavoro. Nonostante il fatto che molti, appena possibile, torneranno a casa andando a coprire circa il 95% di quanti (5,9 milioni a livello nazionale) lasceranno l’Italia.
C’è chi pensa sul serio che possiamo «prendere in affitto» milioni di persone tenendoli qui «appesi» per decenni? «Se io fossi uno xenofobo me lo chiederei», dice il demografo Massimo Livi Bacci: «Se il saldo positivo sarà davvero di 11 milioni di persone mi spaventerebbe meno avere 11 milioni di immigrati emarginati, senza casa, senza diritti, ignari della lingua, senza una famiglia che come in tutte le emigrazioni è quella che aiuta l’inserimento? Non credo proprio. L’inserimento non è solo un interesse loro: è anche interesse nostro».
Giorgio Napolitano l’ha detto bene invitando le Camere ad affrontare il tema della cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati: «Negarla è un’autentica follia, un’assurdità». Sia chiaro, in un’epoca in cui per il Cestim «il 16,6% degli abitanti del pianeta vive in una regione diversa da quella di nascita», passare dallo «ius sanguinis» (la cittadinanza dipende dai genitori) allo «ius soli» (chi nasce sul suolo di uno Stato è cittadino di quello Stato) impone massima cautela. Perfino gli studiosi più aperti invitano a procedere coi piedi di piombo. Come non ha senso che Leonardo DiCaprio, un americano che a dispetto del nome non sa quasi nulla dell’Italia, possa rivendicare il passaporto e votare un «suo» deputato, non ha senso che quel documento possa chiederlo il figlio di una turista nato casualmente a Capri.
Del resto, spiegano Graziella Bertocchi e Chiara Strozzi nel saggio L’evoluzione delle leggi sulla cittadinanza: una prospettiva globale, proprio gli epocali esodi migratori hanno spinto nel dopoguerra molti Paesi a cambiare le loro leggi. Lo «ius soli» integrale applicato mezzo secolo fa dalla metà dei 162 Paesi studiati è integralmente conservato oggi solo da 36. Altri 31 (soprattutto colonie africane che si sono radicalizzate con l’indipendenza) sono passati allo «ius sanguinis». Ma in gran parte, sia che venissero dal primo (l’Irlanda) sia dal secondo sistema (la Germania), hanno finito per scegliere un mix. Che cerchi di tutelare insieme la maggior integrità possibile delle etnie nazionali e la maggiore integrazione possibile dei nuovi cittadini.
Come può l’Italia non rivedere le leggi che hanno permesso a Mario Balotelli, nato a Palermo e cresciuto da genitori bresciani, di diventare italiano solo al compimento dei 18 anni? Anche perché la storia dimostra che il figlio di un immigrato, se accettato e inserito secondo regole chiare, può amare la Patria più di un compaesano con mille anni di «cromosomi» locali.
Valga per tutti il caso di Leon Gambetta. Era figlio di un immigrato savonese e scriveva con amore della chiesa di San Michele, «diamante incastonato in una foresta d’ulivi». Ma era più francese dei francesi, e quando dopo la disfatta di Sedan Napoleone III si consegnò al kaiser Guglielmo, fu lui a dire «No, la Francia non si arrende». E restituì lui l’onore alla Patria che aveva scelto e amato. Se fosse rimasto appeso per decenni al rinnovo del permesso di soggiorno sarebbe stato lo stesso uomo?
Corriere della Sera 29.12.11
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Stranieri triplicati, pochi ragazzi Ecco l’Italia fra mezzo secolo
Le previsioni demografiche: saremo 61,3 milioni nel 2065
di Alessandra Arachi
Immaginate di essere in una macchina del tempo e di andare avanti di cinquant’anni. Guardate l’Italia: il vostro Paese è profondamente cambiato. Quasi una persona su quattro fra quelle che girano per le strade è un immigrato. E quelle strade sono piene di persone anziane: una persona su tre ha più di 65 anni. Pochi i ragazzini in giro: soltanto uno su dieci, o poco più, ha meno di 14 anni. Non è un sogno: sono le previsioni dell’Istat.
Un lavoro statistico realizzato mettendo in campo variabili scientifiche per disegnare l’Italia nel 2065. Saremo un po’ di più, 61,3 milioni di persone (una media ponderata calcolata fra un minimo di 53,5 e un massimo di 69,1 milioni) e lo saremo grazie al flusso migratorio, costante. Nel 2065 gli immigrati in Italia triplicheranno, passando dall’attuale 7,5% a un totale di 22-24% della popolazione.
Fosse per gli italiani, invece, il numero degli abitanti continuerebbe a diminuire, e anche velocemente: l’evoluzione della popolazione naturale per il 2065 ha infatti una dinamica negativa pari a 11,5 milioni (ovvero la differenza fra 28,5 milioni di nascite e 40 milioni di morti). Positivo, invece, il saldo degli stranieri immigrati in Italia: per 7,5 milioni di nuovi nati ci saranno nel 2065 2,3 milioni di morti. Ed ecco che la presenza degli immigrati in Italia passerà dagli attuali 4,6 milioni a 14,1 milioni (con una forchetta statistica di previsione che oscilla tra un minimo di 12,6 e un massimo di 15,5 milioni).
Saremo di più, saremo più multietnici. E, soprattutto, in Italia saremo sempre più vecchi. Non basta per questo dire che l’età media della popolazione aumenterà un po’ ovunque (49,7 anni la media nazionale contro gli attuali 43,5) con punte nel Sud dell’Italia dove la popolazione invecchierà più che altrove, nove anni in cinquant’anni, e nel 2065 si arriverà a una popolazione con età media 51 anni contro gli attuali 42. Molto meno variabile la situazione demografica del Nord dell’Italia dove si arriverà a un’età media di 49 anni contro gli attuali 44.
Non rende nemmeno al meglio l’idea dire che da qui al 2065 gli ultrasessantacinquenni diventeranno il 33 per cento della popolazione. Il punto nodale per capire l’effetto pratico di questo invecchiamento della popolazione è un altro.
È una cifra, una percentuale che l’Istat chiama l’indice di dipendenza degli anziani, ovvero il rapporto tra la popolazione di ultrasessantacinquenni e la popolazione in età attiva, cioè fra i 15 e i 64 anni.
Oggi questo rapporto è pari al 30,9%. Raddoppierà nel 2065, arrivando al 59,7%. Tradotto vuole dire che se oggi c’è un ultrasessantacinquenne ogni due cittadini cosidetti attivi, cioè in età lavorativa, fra cinquant’anni la proporzione si invertirà e due anziani potranno far conto soltanto su un cittadino attivo.
Del resto i saldi troppo sbilanciati fra le nascite e i decessi nel nostro Paese (nonostante i saldi attivi degli immigrati) non possono che dare questi risultati demografici. Ecco quindi che crollerà la presenza dei ragazzini.
Se le previsioni dell’Istat verranno rispettate non ci sarà che il 12,7 per cento di abitanti con meno di 14 anni nel 2065, ovvero poco più di 7 milioni in totale. A trascinare al ribasso queste percentuali saranno i bambini del Mezzogiorno d’Italia dove la loro presenza va a picco, passando dagli attuali 2,1 a 1,3 milioni. Stesso crollo nelle isole: da 1 milione di oggi a 600 mila nel 2065.
Inevitabili, viste le cifre, le ricadute che si avranno nelle percentuali della forza lavoro. Lo abbiamo già detto: il rapporto fra i cittadini attivi e gli anziani invertirà le sue proporzioni. Ma anche in numero assoluto diminuirà notevolmente la percentuale di cittadini in età di lavoro, almeno per quella che oggi viene considerata l’età attiva del lavoro, ovvero fra i 15 e i 64 anni.
Oggi i cittadini attivi sono il 65,7% del totale. Secondo l’Istat ci sarà una riduzione di questa fascia di età contenuta in un medio termine, mentre sarà ben più accentuata nel lungo periodo. Per capire: nel 2026 i cittadini con età compresa fra i 15 e i 64 anni saranno il 62,8%, ma nel 2065 toccheranno il picco negativo del 54,7%, ovvero meno 11% rispetto agli attuali.
Il Corriere della Sera 29.12.11