In attesa della pubblicazione del “Salva-Italia”, è utile fare una disamina delle misure contenute nel capitolo “Liberalizzazioni”, anche alla luce dei passi indietro compiuti dal governo in sede parlamentare. Va subito detto che i sette articoli di questo capitolo non produrranno, nell’immediato, effetti concreti dal lato della crescita, anzi in taluni casi creano incertezza. Se è vero che il governo ha, da un lato, le attenuanti del poco tempo avuto e dell’eccessiva aspettativa che si era manifestata a causa delle biografie di Monti e Catricalà, dall’altro va sottolineato che è mancata l’accortezza, sia di verificare preliminarmente le proposte circolate in Parlamento negli ultimi anni, sia di analizzare quello che aveva fatto ad agosto l’esecutivo precedente, per correggerne l’indeterminatezza e per allargare il campo di applicazione delle misure su cui Berlusconi si era impegnato con la Ue ma che di fatto rimangono ancora solo sulla carta (ad esempio sulle professioni). Invece si è scelto di prevedere poche norme specifiche, unitamente a disposizioni generiche che non indicano i settori in cui si applicano e che oltretutto si sommano ad altre analoghe già vigenti. Inoltre, quasi tutte le norme richiedono altri provvedimenti per essere rese operative. Insomma, un bilancio non proprio soddisfacente se si analizzano le criticità.
Esercizi commerciali: la libera fissazione degli orari da parte di tutti gli esercizi (e non solo di quelli ubicati in comuni turistici), produrrà effetti forse soltanto per le aperture domenicali e festive che peraltro erano già ampiamente previste da deroghe regionali e comunali. Non c’è da aspettarsi alcun cambiamento sulle fasce orarie di apertura: la riforma Bersani del 1998 aveva già eliminato l’obbligo della mezza giornata di chiusura infrasettimanale e introdotto un arco temporale di 13 ore di apertura giornaliera. In alcune città, specie d’estate, si trovano negozi aperti dopo le 22. La norma che introduce il principio generale che non si possono imporre contingenti e vincoli all’apertura di nuovi esercizi commerciali è fumosa, indistinta e si sovrappone alle disposizioni del decreto n.59/2010, con cui il governo Berlusconi ha recepito, senza liberalizzare nulla, la direttiva comunitaria sui servizi. Non viene specificato a quali settori si applica, tanto che i rivenditori di giornali si sono allarmati (ma nulla di esplicito è previsto per le edicole), diversamente da tabaccai e farmacisti che sembrano tranquilli. I negozianti non sono interessati perché contingenti numerici e tabelle merceologiche furono eliminati da Bersani dopo un vigoroso braccio di ferro con Confcommercio, all’epoca guidata da un Billè che bruciava in piazza le licenze. Quindi già da 13 anni per aprire un esercizio fino a 250 mq. è sufficiente presentare una comunicazione al comune; la grande distribuzione farà fatica a dimostrare che è tutto libero in quanto standard urbanistici e autorizzazioni regionali per realizzare ipermercati non sembrano essere messe in discussione da una disposizione di questo tenore.
Farmaci: l’uscita dal monopolio delle farmacie dei medicinali di fascia C rimane lettera morta perché l’emendamento governativo ha di fatto depotenziato e reso inattuabile la norma. Già nella versione originaria era prevista un’immotivata esclusione delle parafarmacie situate nei comuni con meno di 15mila abitanti, adesso nel testo approvato viene mantenuta alle farmacie l’esclusività della vendita dei medicinali con ricetta mentre le parafarmacie potranno vendere solo quei pochi medicinali che saranno declassati a senza obbligo di ricetta con successivo provvedimento di PdFA e Ministero. Poiché è improbabile l’adozione di questo inutile e contradditorio decreto, tutto resterà immutato. Anzi l’unico effetto prodotto sarà che, con la caduta dell’obbligo del prezzo fisso, gli unici che avranno la facoltà di fare sconti saranno paradossalmente le farmacie.
Professioni: si è scelto di non innovare ma di dare un percorso definito e meno traumatico (senza la norma “ghigliottina” sugli ordinamenti) all’applicazione della miniriforma di agosto (accesso; tirocinio, tariffe, pubblicità). Il governo era già delegato a individuare, senza aspettare il 2012, le specifiche norme da abrogare e a redigere il regolamento per disciplinare le società tra professionisti.
Attività economiche: qui siamo alla seconda recente riproposizione legislativa del genere tremontiamo «è tutto libero tranne quello che è vietato», coniabile adesso nel nuovo slogan «senza divieti è tutto libero». Si abrogano (ma non si sa da quando e quali sono concretamente), restrizioni e divieti di natura soggettiva, fisica, geografica analogamente a quanto contenuto nella manovra di agosto, per la cui attuazione il governo dovrebbe adottare i relativi regolamenti, categoria per categoria, entro l’anno prossimo. Sono poi norme che si sovrappongono al d. lgs 59/2010 e che, non precisando i settori in cui si applicano, equivalgono a disposizioni cornice indistinte destinate a restare sulla carta: unica certezza normativa è l’esclusione dei taxi, a seguito della preoccupazione manifestata vigorosamente dalle associazioni dei tassisti. L’esplicita esclusione di un settore potrebbe far propendere per la tesi che l’articolo si applica a tutte le altre categorie, ma non è così pacifico.
Trasporti: arriva finalmente l’Autorità indipendente, quando è dal 2008 ferma la proposta di legge dei deputati Pd. Si è scelto di assegnare le funzioni a una autorità esistente ma la sua individuazione sarà decisa con regolamento governativo e non con legge (un’anomalia dal punto di vista giuridico). Su sollecitazione del Pd, si è allargato giustamente il campo di attività a tutte le forme di trasporto, ma all’ultimo istante una manina ha escluso i servizi stradali e autostradali, per mantenerli sotto il controllo del Ministero.
Dunque alla fine si registrano più ombre che luci o, se vogliamo, più annunci che cambiamenti immediati. Tuttavia va riconosciuto il tentativo promosso seriamente soltanto da due delle tre principali forze politiche che sostengono Monti e questo è un serio problema politico per il prosieguo di voler riaprire una nuova stagione di liberalizzazioni; un ciclo che a breve potrà essere implementato come è auspicato dal Pd con i provvedimenti della cosiddetta “fase due”.
Interventi che non potranno essere considerati decisivi o esaustivi dal lato del sostegno alla crescita ma che comunque possono andare in quella direzione solo se saranno in grado di formare un clima di ritrovata fiducia da parte di imprese e consumatori. Ci vuole però il coraggio politico (finora mancato) per disboscare il Paese da rendite di posizione, privilegi corporativi e strutture oligopolistiche.
Le norme da varare dovrebbero questa volta indicare in modo esplicito e concreto il cambiamento rispetto agli assetti vigenti, ben sapendo che questa via fa subito mettere in moto gli interessi che si frappongono. Dal 2008, conclusa l’azione di Bersani con le lenzuolate, sono rimaste inascoltate le segnalazioni che l’Antitrust ha inoltrato a Parlamento e governo. Il ministro Passera, che è avvantaggiato dal fatto che nel governo dei tecnici è più facile gestire le legittime gelosie di colleghi titolari delle politiche settoriali, rispetto a quanto non avviene con ministri espressione diretta di diverse forze politiche (come fu, per esempio, nell’esperienza di Prodi Bersani), ha quindi oggi la grande opportunità di ripristinare al dicastero dello sviluppo un presidio orizzontale e autorevole di coordinamento e proposizione per trasformare le indicazioni dell’Autorità garante in un corposo pacchetto di liberalizzazioni, se si vuole far ricomprendere all’interno di tale vocabolo tutto ciò che serve a una sana, leale e trasparente competizione a vantaggio di consumatori e crescita. La lista dei settori su cui intervenire è nota; meno chiara è la volontà di fare scelte scomode per qualcuno.
L’Unità 28.12.11