Un pessimo compleanno, di quelli in cui la salute del festeggiato appare sempre più precaria, i medici non sembrano all´altezza. Francamente, non se l´aspettava nessuno: perché nonostante i dubbi iniziali, i primi dieci anni dell´euro, entrato nelle nostre tasche il 1 gennaio 2002, sono stati un lungo successo. Almeno per otto anni, la moneta unica ha assicurato all´Europa stabilità e una generale prosperità. All´inizio, ci si chiedeva se avrebbe retto la parità con il dollaro: si è dimostrato più forte della valuta americana, stabilizzandosi su un cambio di 1,30-1,40. Quando, dopo il 2008, le cose si sono messe al brutto, è parso l´ombrello con cui ripararsi dalle intemperie della crisi mondiale: figurarsi dove saremmo, ci si diceva mentre esplodeva il dramma greco, senza l´euro. Solo negli ultimi mesi ci si è accorti che all´ombrello mancavano dei pezzi e che il manico era fin troppo fragile.
Agli italiani, le nuove banconote erano state presentate come una sorta di passaporto da cittadini europei, moderni e maturi. E lo sono state, a cominciare dalla vita quotidiana. Lo testimonia la piccola ebbrezza dei ragazzi che, sbarcando a Parigi o a Madrid, si trovano a comprare il biglietto della metropolitana con gli stessi spiccioli con cui l´avevano acquistato a Milano. La fine del rischio di cambio nella gran parte degli affari delle aziende. La facilità di spostare soldi e investimenti in giro per l´Europa. Non tutti l´hanno vissuta così, soprattutto chi, con l´estero, aveva poco a che fare. Nell´immaginario collettivo italiano, l´introduzione dell´euro coincide con una megatruffa generalizzata: doveva essere un euro uguale 1.936,25 lire, si trasformò in un euro uguale mille lire. La moneta unica, in realtà, non c´entrava: il problema fu la mancata tutela e vigilanza che il governo (Berlusconi) di allora, al contrario degli altri governi europei, non riuscì ad assicurare. Il risultato fu la percezione di un improvviso e ingiustificato aumento dei prezzi. Vero? Sì e no. I dati mostrano una brusca impennata dei prezzi più vicini alla gente: le mele, la carne, il caffè. Nel 2002, l´anno dell´euro, i prezzi degli alimentari salgono del 3,7%, quelli di bar e ristoranti del 4,5%. Ma una fiammata d´inflazione non ci fu: nel 2002, l´indice generale dei prezzi sale del 2,5%, meno che nel 2001 e nel 2003 (2,7% in ambedue i casi). Su un orizzonte più lungo, proprio l´inflazione è stata definita la maggiore vittoria dell´euro in Italia. Non tutto è merito della moneta unica: negli ultimi anni, nonostante gli strappi del petrolio, l´inflazione è stata bassa in tutto l´Occidente. Per l´Italia, comunque, si è trattato di una novità. Negli anni ‘70 e ‘80, i prezzi correvano in media di oltre il 13% l´anno. Negli anni ‘90, man mano che la prospettiva dell´euro si faceva concreta, sono scesi al 5%. Negli ultimi anni, si sono fermati al 2-3%.
L´altro grande assist fornito dall´euro all´economia italiana riguarda il protagonista in negativo di questi ultimi mesi: la finanza pubblica. Fino a poco tempo fa, il famigerato spread con i Bund tedeschi era qualcosa per cui dovevamo brindare. Fino metà degli anni ‘90, i tassi d´interesse sul debito pubblico italiano veleggiavano intorno al 4,5%. Con l´euro sono scesi – e sono rimasti fino al 2008 – intorno al 2%. Per un paese che ha quasi 2 mila miliardi di euro di debito pubblico, oltre due punti in meno di interessi sono roba grossa. Negli anni dell´euro, l´Italia ha, grosso modo, risparmiato 50-60 miliardi di euro ogni anno nel costo del debito. Anche grazie a questa leva, il debito pubblico era passato dal 120% del 1994 al 103% del 2008, prima che lo sfondamento dell´ultimo governo Berlusconi lo riportasse al 120%. Dove l´euro non sembra essere servito è nella crescita. L´ingresso nella moneta unica doveva, rompendo il circolo vizioso svalutazione della lira – inflazione – nuova svalutazione, spingere l´economia italiana verso nuove forme di sviluppo. Non è successo: per tutti il periodo dell´euro, i redditi italiani sono rimasti quasi fermi e lo sviluppo è stato asfittico. Il tradizionale volano delle esportazioni si è inceppato. Sotto questo profilo, il caso italiano è il più grave, ma non è unico. Si annida, probabilmente, qui, secondo molti economisti, il male profondo che, alla fine, ha eroso il decennio dell´euro. Contrariamente a quanto sostiene la retorica tedesca, infatti, quello che accomuna i Paesi deboli dell´euro (Grecia, Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda) non è l´indisciplina nel tenere a freno i conti pubblici. Quella riguarda Grecia e Italia, ma, in questa pagella, nel 2008 Spagna e Irlanda avevano i conti assai più in ordine della virtuosa Germania. Il filo comune è, invece, che, negli anni dell´euro, tutti questi Paesi hanno visto aggravarsi il deficit dei conti con l´estero. E´ qui la spaccatura dell´Europa: perchè, contemporaneamente, i Paesi forti, Germania in testa, miglioravano, invece, la loro bilancia dei pagamenti. In altre parole, al centro d´Europa si è aperto un divario di competitività: secondo le stime, ad esempio, il sistema dei prezzi e dei salari risulta, in Italia, più caro del 20-25% rispetto alla Germania. L´equilibrio è stato mantenuto perchè, a colmare il buco, hanno provveduto, fino al 2008, i capitali dei Paesi del Nord, che fluivano al Sud, a caccia di occasioni di investimento. Quando, con la crisi finanziaria, questo flusso si è interrotto, sono scoppiate le bolle immobiliari in Spagna e Irlanda e le crisi del debito pubblico in Grecia ed Italia.
Se questa interpretazione, ormai prevalente fra gli economisti anglosassoni, è corretta, le ricette che si stanno applicando per curare l´euro non sono quelle giuste: l´austerità per tutti predicata da Berlino cura i sintomi (e neanche tutti), ma non le cause. E i tempi sono irrealistici: è difficile pensare che l´Italia possa recuperare un deficit del 25% di competitività in 2-3 anni, a meno di una deflazione selvaggia e insopportabile. E, probabilmente, anche che risani, a colpi di tagli di spesa e rincari di tasse, la finanza pubblica, nel giro di mesi, anziché anni. Il capo economista dell´Fmi, Olivier Blanchard, ha avvertito in questi giorni che troppa austerità, troppo in fretta può essere controproducente: «I livelli di debito devono scendere, ma è una maratona, non uno sprint». Blanchard rivela che le stime preliminari compiute dagli uffici del Fondo monetario, indicano come gli effetti combinati dell´austerità fiscale e della conseguente minore crescita dell´economia possano facilmente portare, alla fine, ad un aumento, non ad una riduzione, degli spread sui titoli pubblici. Insomma, per salvare l´euro c´è il rischio di spararsi sui piedi e compromettere ulteriormente la moneta unica: l´impegno assunto, ad esempio, dal governo Berlusconi (e confermato da Monti) a pareggiare il bilancio entro il 2013 può rivelarsi un boomerang. Risanare i conti troppo in fretta, secondo Blanchard, può rendere il debito meno, anziché più sostenibile. E, con un messaggio evidentemente diretto a Berlino e all´agenda di risanamento abbozzata all´ultimo vertice europeo del 9 dicembre, il capo economista dell´Fmi chiarisce quale sia l´orizzonte di tempo realistico: «Ci vorranno – sostiene – più di due decenni per tornare a livelli prudenti di debito».
Quando i medici litigano al capezzale del paziente è un brutto segno. E il senso di dramma incombente è acuito dalla consapevolezza che le alternative alla sopravvivenza dell´euro sono peggiori dei sacrifici necessari per superare la crisi attuale. Per tutti, Paesi forti e deboli. Nelle scorse settimane, gli uffici studi di molte grandi banche si sono esercitati nell´immaginare gli scenari di un collasso dell´euro. Le ipotesi su cui questi scenari sono costruiti sono discutibili, approssimative, spesso azzardate. Ma i risultati sono univocamente impressionanti. Secondo una grande banca giapponese, Nomura, in caso di fine della moneta unica, nell´arco di cinque anni, il nuovo marco tedesco risulterebbe solo marginalmente rivalutato, rispetto al dollaro. Ma tutte le altre monete nazionali si svaluterebbero pesantemente rispetto all´euro attuale: fra il 7 e il 10% il fiorino olandese e il franco francese. Fra il 30 e il 50% per peseta spagnola, scudo portoghese, sterlina irlandese. Quasi il 60% per la dracma. La nuova lira risulterebbe svalutata di oltre il 27% rispetto alla quotazione attuale dell´euro sul dollaro. Sulla base dell´esperienza delle crisi valutarie del passato, la Nomura calcola che queste svalutazioni si accompagnerebbero, quasi certamente, a tassi di inflazione annua, mediamente, superiori (spesso di molto) al 10%.
Con quali effetti sulle singole economie? Secondo un´altra grande banca, la olandese Ing, in caso di collasso dell´euro, l´economia italiana accuserebbe, da qui al 2016, una perdita secca complessiva di oltre il 6% del Pil, al netto dell´inflazione. Ma anche Francia e Olanda si contrarrebbero di più del 5% e la stessa Germania vedrebbe il suo prodotto interno lordo ridursi di quasi il 4%. Se queste previsioni vi fanno venire i brividi, considerate che sono selvaggiamente ottimistiche rispetto a quanto prevede invece un´altra banca mondiale, la svizzera Ubs. Gli gnomi di Zurigo si concentrano sull´impatto immediato non del collasso generale dell´euro, ma dell´uscita di un singolo paese dalla moneta unica. La simulazione è agghiacciante. Per un Paese come l´Italia, secondo l´Ubs, trovarsi fuori dall´euro significherebbe vedere il Pil quasi dimezzarsi nei primi 12 mesi. Ad ogni italiano costerebbe fra 9.500 e 11.500 euro a testa, a cui si aggiungerebbero, per ogni anno successivo, altri 3-4.000 euro. Ma anche la Germania dovrebbe pensarci bene, prima di lasciare la moneta unica. Le costerebbe un crollo del 25% del prodotto interno lordo: fra 6 mila e 8 mila euro a testa, per ogni tedesco, più 3.500 – 4.500 euro, per ogni anno successivo.
In realtà, nessuno è oggi in grado di formulare una previsione attendibile degli effetti di una crisi terminale dell´euro. Troppo complesso il quadro: ad esempio, un collasso della moneta unica amplificherebbe, probabilmente, i suoi effetti immediati, perchè scatenerebbe una nuova crisi finanziaria mondiale. Ma le simulazione servono ad illustrare la posta in gioco. Di fatto, dopo dieci anni, siamo tutti, in qualche modo, prigionieri dell´euro. O, se preferite, l´euro è ormai la nostra casa, degli italiani come dei tedeschi e, fuori, c´è freddo e buio. La crisi del decimo anno segna, però, una svolta profonda. Anche se l´euro sopravviverà, niente sarà più come prima. I prossimi dieci anni della moneta unica saranno, comunque, molto diversi dai primi dieci.
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“La sfida della solidarietà ultima carta per evitare la fine del sogno europeo”, di GIORGIO RUFFOLO
Il primo di gennaio 1999 è nato l´euro e tre anni dopo ha cominciato a circolare. Ora rischia di morire. Ciò che oggi stupisce di quella sua nascita è la relativa facilità. Certo ci furono tensioni e conflitti, specie da noi. Ma tutto sommato molto meno pesanti di quelli che si sarebbe potuto attendere da una decisione che cambiava, per i Paesi implicati, il corso della loro storia. Un´operazione anche materialmente complessa, fu portata a termine nel giro di pochi anni con efficacia, starei per dire con eleganza.
Oggi quella operazione è in pericolo. Ciò che ha colpito l´euro è una crisi mondiale sorta non nei suoi confini ma all´esterno, in America, generata da una inflazione finanziaria a sua volta promossa da un gigantesco indebitamento che ha minacciato di travolgere le banche americane, coinvolgendo quelle dei Paesi europei attraverso gli stretti legami dell´interdipendenza. Le conseguenze sembrano addirittura più gravi per l´Europa che per gli Stati Uniti, e ciò per ragioni evidenti. Il governo americano ha affrontato la crisi con un piglio drastico: un salvataggio “governativo” in grande stile che ha consentito di sostituire l´indebitamento privato con l´indebitamento pubblico. Il peso della crisi è ricaduto sul contribuente, con conseguenze gravi per la finanza pubblica (paradossalmente “punita” dalle agenzie di rating) ma non tanto da costituire una minaccia di fallimento per lo Stato. Il lato oscuro del modo in cui si è affrontata la crisi americana sta nel fatto che esso non ne ha minimamente rimosso le cause.
Le condizioni dell´Europa sono diverse. In America dietro il dollaro c´è uno Stato. Nell´Unione Europea ce ne sono ventisette. L´impatto della crisi, in Europa , è stato del tutto diverso per gli Stati che presentavano già finanze pubbliche deficitarie e per quelli più o meno in ordine. Ciò ha determinato contrasti di visione e di azione. Teoricamente erano possibili, al limite, due posizioni. Una solidale che coinvolgesse i deboli e i forti in una unica strategia di difesa. L´altra, “egoista”, che lasciasse del tutto sulle spalle dei deboli i costi dell´aggiustamento. L´Unione sembra aver scelto una via di mezzo, esitante e riluttante. Per esempio, sembra disposta ad approvare l´intervento della Bce a sostegno dei titoli deboli, purchè non sia illimitato: il che lo rende inutile, perché sfida la speculazione proprio a “saggiare” quei limiti. Inoltre, sembra approvare la decisione della Banca Centrale di rifinanziare massicciamente le banche per indurle a riattivare il credito all´economia. Ma se la domanda di credito non è stimolata dalla crescita le banche finiranno per ridepositare quelle somme nella Bce.
L´attuale “leadership” franco-tedesca sembra consapevole che la sola politica monetaria non è in grado al tempo stesso di garantire la disciplina e di promuovere la crescita. Ma, quando si sposta giustamente sul fronte delle politiche di bilancio, adotta una scelta di rigorosa austerità che, mentre risponde alle esigenze della disciplina, manca totalmente l´obiettivo essenziale della crescita. E´ così che nel più recente progetto di risoluzione (“international agreement”) che sarà, pare, sottoposto al prossimo Consiglio Europeo, non ci si limita a ribadire i vincoli del “patto di stabilità”, ma li si aggrava pesantemente con ulteriori norme restrittive, alcune delle quali persino ridicole: come quando si minaccia di trascinare di fronte alla Corte di giustizia gli Stati che stanno rischiando niente di meno del fallimento economico. Se questo è il senso della leadership franco tedesca (una leadership minata da forti contrasti interni) c´è da rimpiangere amaramente i tempi di Mitterrand e di Kohl come quelli dell´età di Pericle. Un governo economico dell´Europa degno di questo nome, anzichè infierire sadicamente sui governi in corso di fallimento, dovrebbe rilanciare il cosiddetto Fondo Salva Stati in un ruolo di “tesoro europeo” precursore di un vero bilancio federale, e finanziare progetti di investimento comuni miranti a promuovere la crescita, lasciando in pace la Corte di Giustizia. E soprattutto, non dovrebbe dimenticare che l´euro non è soltanto un accordo monetario. E´ parte integrante di un grande disegno politico. E´ l´istituzione più coerente con un approccio federalista al grande obiettivo dell´unità politica europea. Quell´obiettivo è stato più volte ribadito dai governi italiani (tranne quello berlusconiano, provincialmente leghista). Aspettiamo di sapere se il governo Monti lo riassumerà come suo, oppure si farà intimidire dal duo carolingio. Se, promuovendo un diverso approccio condiviso da altri Paesi “solidali”, sarà all´altezza di quella formidabile impresa che, dodici anni fa, consentì all´Italia di Prodi e di Ciampi l´orgoglioso ingresso nell´avanguardia della moneta unica. Una decisa svolta: questo consentirebbe all´Europa di sperare per non sparire.
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“Quel “vincolo esterno” che ha salvato l´Italia Draghi: ora tocca a noi”, di Massimo Giannini
Per Carlo Azeglio Ciampi “è un leone che bela” La moneta unica ha convinto meno del previsto, ma abbandonarla non conviene a nessuno. Pur con la sua irrisolta zoppìa di “divisa senza sovrano” è stata l´unica idea forte prodotta da questa metà del mondo dal secondo dopoguerra, un progetto geopolitico in veste monetaria.
«L´euro è un leone che bela…». Carlo Azeglio Ciampi la vede così: i primi dieci anni della moneta «che non dovrebbe esistere» (come ha scritto uno studio dell´Ubs) hanno fiaccato la “belva”. L´euro non ruggisce, perché all´unione monetaria non si è mai accompagnata l´unione politica. Una «divisa senza sovrano». E´ la famosa zoppia, che proprio Ciampi denunciò profeticamente già nel 1998, all´atto di nascita della moneta unica. Ma in questi giorni di lenta e penosa euroagonia, il presidente emerito della Repubblica si sforza di non perdere l´ottimismo: «La moneta unica reggerà all´urto di questa crisi. Perché i vantaggi dell´euro, al dunque, sono maggiori degli svantaggi. E lo sono per tutti. Per i tedeschi, che hanno beneficiato di un dividendo competitivo formidabile, non solo dal lato delle esportazioni ma anche dal lato della gestione dei tassi di interesse attivi e passivi. Ma anche e soprattutto per noi italiani: senza l´euro saremmo un Paese in bancarotta».
Il break up della moneta unica è ipotesi agghiacciante. Non che qualcuno non ci stia pensando. Gli “gnomi di Zurigo” di Ubs, appunto, che insieme ai “lupi” di Merrill Lynch e ai “samurai” di Nomura fanno i conti su quanto costerebbe il ritorno alle valute nazionali. E poi le università tedesche devote al culto ortodosso della dea pagana Bundesbank, che simulano il Neuro (l´eurone dei ricchi del Nord) e il Sudo (l´euretto degli sfigati del Club Med). Persino nel Belpaese si favoleggia di segretissimi studi di fattibilità elaborati addirittura dalla Banca d´Italia. «Fantasie», le bolla ogni volta il governatore Ignazio Visco. Anche per lui, «l´euro è un destino comune», che ci accomuna tutti e che le classi dirigenti europee hanno il dovere di compiere. Il “come” è tema del terribile 2012 che sta per cominciare.
Dal vasto punto di vista europeo, nessun dubbio: pur con la sua irrisolta “zoppia”, l´euro è stata l´unica vera idea forte prodotta in questa metà del mondo dal secondo dopoguerra. «Un progetto geo-politico in veste monetaria», secondo la felice formula di Lucio Caracciolo. Dal modesto punto di vista italiano, una certezza: pur con tutti i suoi limiti, l´euro è stata l´unica piattaforma politico-economica sulla quale una nazione incompiuta ha cercato di rifarsi un´identità. Non ci è ancora riuscita, e i fatti di questi mesi lo dimostrano. Se la moneta unica rischia il collasso, molto si deve anche al fatto che l´Italia, dopo una parentesi virtuosa e rigorosa tra il 1996 e il 2000, è tornata a praticare il solito lassismo finanziario, e dunque a destabilizzare il non più solido edificio comunitario. Ma l´euro rimane comunque un´altra prova, l´ennesima, di quel vincolo esterno che ci ha salvato già tante volte, come amava ripetere Guido Carli. Se c´è un momento in cui questo Paese ha sentito un barlume di orgoglio unitario e identitario è stato al tempo del traguardo di Maastricht, quando i tedeschi del falco Tietmeyer e gli olandesi del cervellotico Zalm non ci volevano nel gruppo di testa.
Fu allora che il Paese riuscì ad abbattere il suo deficit al 3% e il suo debito al 103% del Pil, e gli italiani accettarono senza battere ciglio l´ennesima stangata (l´eurotassa di Prodi). Come ricorda oggi Ciampi: «La gente percepì quegli sforzi come un dovere naturale, come una cosa giusta da fare. E infatti la facemmo, senza traumi e senza conflitti sociali». Resta il mistero di un successo propiziato da un pezzo di establishment che alcuni anni prima, nel febbraio 1992, sottoscrive senza esitazioni il Trattato di Maastricht dal quale tutto è nato: Andreotti e De Michelis, uomini simbolo di quella Prima Repubblica con la quale nasce la “democrazia del debito”, che mettono la propria firma su un progetto che quel debito lo dovrà seppellire, e quella Repubblica la dovrà rinnegare. E resta il mistero di un altro pezzo di establishment che in quel 1996 si batte per evitare che l´Italia agganci il primo vagone dei grandi d´Europa: Berlusconi, Fazio e Romiti, euroscettici per convenienza politica o per convinzione personale che oggi, di fronte ai guai dell´euro, si crogiolano nella corriva ragione del “senno di poi”.
La verità, come diceva Carli, è che il “vincolo esterno” ci ha già salvato tre volte: l´adesione agli accordi di Bretton Woods, l´ingresso nel Sistema Monetario Europeo, il Trattato sull´Unione politica, economica e monetaria. Con l´approdo all´euro siamo dentro lo stesso percorso: abbiamo aderito a un sistema di vincoli decisi da altri, per cercare almeno una volta di migliorare noi stessi. In questa consapevole cessione di sovranità c´è il desiderio di un riscatto, ma anche il riconoscimento di una sconfitta. Come dice Sabino Cassese, «il cosiddetto vincolo esterno costituisce una fuga dallo Stato, in quanto lo Stato non trova in se stesso la forza della propria modernizzazione». Era il rovello del solito Carli: perché c´è bisogno di un vincolo «per innestare l´economia di mercato nel tessuto vivente, nelle fibre della società, introdurla nella mentalità delle classi dirigenti?». Perché spesso le élite, in nome del popolo, fanno scelte che danneggiano il popolo.
Oggi, di fronte alle dure ed inique manovre del governo Monti, siamo al bivio. Meglio tornare come eravamo, liberi e irresponsabili, con un carico immane di debito e di inflazione da addossare ai poveri eredi o da scaricare sui rituali nemici? O onorare gli impegni siglati con l´Europa, provando ad essere quello che non siamo, virtuosi e responsabili, capaci di abbattere il debito e dimostrare ai tedeschi che Italia-Germania non è solo 4 a 3 di Messico ‘70? Quelle manovre le dobbiamo migliorare, nel segno della giustizia sociale. Ma non le possiamo evitare, all´insegna del vecchio azzardo morale. Prima di traslocare a Francoforte, Mario Draghi ha detto: «Una nostra tentazione atavica, ricordata da Alessandro Manzoni, è di attendere che un esercito d´Oltralpe risolva i nostri problemi. Oggi non è così: sarebbe una tragica illusione pensare che interventi risolutori possano giungere da fuori. Spettano a noi». Euro o non euro, si tratta di trasformare il vincolo esterno in vincolo interno. Non è questione di odioso mercatismo, ma solo di sano civismo.
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“Prodi: via a eurobond e superBce il tandem Berlino-Parigi ha fallito”, di ANDREA BONANNI
Professor Prodi, dieci anni fa l´euro entrava per la prima volta nelle tasche dei cittadini. Oggi ci ritroviamo per una celebrazione o per un funerale?
«Diciamo che siamo di fronte alla necessità di una rifondazione. Dobbiamo prendere atto dell´incompiutezza di quel progetto e portarlo a termine. Del resto anche allora lo andavo dicendo che non si poteva avere una politica monetaria unica senza una politica economica comune. Ma la reazione, di Kohl come di Chirac, fu netta: è meglio rinviare la fase due»
Più che rinviarla, se la sono dimenticata…
«Sì. Perchè l´Europa è cambiata. E´ cominciata l´era della Grande Paura. Paura della globalizzazione. Paura della Cina. Paura del futuro. E la Germania si è fatta paladina di queste paure. Così tutto il processo si è rallentato. E quando è arrivata la tempesta non solo mancavano gli strumenti per affrontarla, ma anche la voglia di uscire dai porticcioli protetti degli egoismi nazionali».
Non le sembra che quella della globalizzazione fosse un paura giustificata?
«Non ha senso fuggire di fronte all´inevitabile. La globalizzazione ci impone una sfida. Ma era folle pensare di poterla evitare».
Nel suo libro appena uscito, “Dieci anni con l´euro in tasca” in cui dialoga con Delors, si dimostra ottimista sul futuro della moneta unica. Perché?
«Per la Germania l´uscita dall´euro sarebbe una tragedia mai vista. Certo, c´è una dosa di schizofrenia nella politica europea: l´analisi guarda al futuro, ma la prassi pensa solo al presente immediato. Si dà addosso alla Grecia pensando alle elezioni in Nordrhein-Westfalen. Ma anche la schizofrenia ha un limite».
Eppure avrà sentito anche lei le voci secondo cui la Germania starebbe stampando in Svizzera i nuovi marchi…
«Sì, le ho sentite. Ma sono, appunto, voci. Se si tornasse all´euro tedesco e all´euro italiano, il rapporto salirebbe immediatamente verso l´uno a due. E la Germania smetterebbe di esportare. Nell´ultimo anno la Germania ha registrato un surplus commerciale di 200 miliardi, di cui metà verso la zona euro. Sarebbe cancellato in un attimo».
Chi avrebbe immaginato, solo pochi mesi prima che avvenisse, la fine dell´Urss? Non potrebbe accadere lo stesso con l´euro?
«Non credo. Quello sovietico era un sistema che aveva accumulato errori tali da non reggere più. L´euro, invece, è stato un elemento di stabilità e di progresso. In questi dieci anni l´industria europea si è andata rafforzando molto più di quella americana. Abbiamo imparato a vivere con una moneta forte. I Paesi del Golfo e la Cina aspettano solo una politica di buonsenso da parte degli europei per riequilibrare le loro riserve valutarie a favore dell´euro».
E quale sarebbe questa politica di buonsenso?
«Una moneta comune va difesa con strumenti comuni. Occorre che la Bce sia autorizzata a fare il proprio lavoro, come lo fa la Fed. E occorre che gli eurobond, garantiti dall´oro delle banche centrali nazionali, consentano non solo di difendere il debito, ma anche di rilanciare gli investimenti, come hanno fatto Cina e Usa nel momento del bisogno».
I tanti errori della coppia Merkel-Sarkozy erano evitabili?
«Se governano in base ai sondaggi di opinione, no»
Ma in democrazia si può fare altrimenti?
«Io l´ho fatto: dalle carceri, alla politica di cittadinanza, all´immigrazione. E ne ho pagato il prezzo. Ma non ho rimpianti».
Oggi l´Europa è più tedesca che mai…
«E lo è per colpa della Francia. Parigi ha voluto contenere da sola la Germania senza averne il peso. Questo direttorio a due ha rovinato l´Europa, perché in realtà a comandare è solo la Germania. E Berlino insegue solo il suo interesse immediato».
Ma se i grandi sbagliano impunemente, e i deboli, come è successo in Portogallo, Grecia e Italia, sono costretti a cambiare governi democraticamente eletti, che fine fa la democrazia?
«La democrazia va sempre in crisi se non si porta il processo democratico al livello in cui si prendono le decisioni vere, se il “potere del popolo” si esercita là dove non c´è più potere reale. E´ quanto sta succedendo in Europa».
Allora non c´è via di uscita?
«Tanto per cominciare sono convinto che, come si sono dovuti cambiare i dirigenti dei Paesi perdenti, gli errori che si stanno accumulando sono talmente madornali che si finirà per cambiare anche quelli dei Paesi cosiddetti forti. La crisi economica dell´Europa, che è ormai inevitabile, si scaricherà su quelli che, a torto o a ragione, hanno avuto la pretesa di dirigerla. E a quel punto si potranno riaprire tutti i giochi».
da Repubblica dl 28.12.11