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"Cambiano le frontiere del benessere", di Gianni Riotta

Il primo a segnalarlo, di buon mattino a Santo Stefano, è un tweet, messaggino online dell’economista venezuelano Moises Naim @moisesnaim: «Nel 2011 l’economia del Brasile ha superato quella inglese e il tasso di omicidi in Colombia è sceso del 26%». Solo in apparenza una bizzarria, perché l’ex ministro di Caracas segnala non solo il boom ormai impetuoso di Rio de Janeiro, +7% l’anno, ma un nuovo possibile partner nel club del benessere, la Colombia che sembrava ostaggio del narcotraffico e cresce invece del 4%.

Il 2011 manda sui libri di storia – che si occuperanno di realtà, e non dei miraggi che incantano noi contemporanei – con il sorpasso Brasile-Regno Unito anche quello della Cina sul Giappone, staffetta asiatica incredibile solo qualche stagione fa. Noi italiani restiamo, ma attenti ormai le classifiche economiche cambiano più in fretta di quelle del football, all’ottavo posto. Abbiamo dietro la Russia (nona) e l’India (decima) e il Centre for Economics and Business Research, che ha annunciato ieri Rio avanti Londra, prevede abbiano già messo la freccia per superarci.

A Capodanno 2020 la Cina sarà seconda dietro gli Stati Uniti, la Russia quarta (finalmente democratica sperano i tanti ragazzi in piazza a Mosca in queste ore), l’India sarà quinta e il Brasile sesto. Il vecchio mondo del XX secolo sarà rappresentato solo dagli Stati Uniti, almeno così auspica il presidente Obama, primi intorno alla fragile bandiera del dollaro e all’innovazione delle tecnologie, e dal Giappone, terzo.

Negli Anni 60 il Nordeste del Brasile era considerata «una zona esplosiva» dallo studioso De Castro, il regista Glauber Rocha rappresentava nei suoi tragici film la povertà del «sertao» , nel film «Il Dio nero e il diavolo biondo» l’eroe mitico Antonio das Mortes guardava impotente i contadini consumati dalla siccità. Contemporaneamente l’Inghilterra dei Beatles lanciava cinque dischi ai primi cinque posti delle classifiche. Due culture, due economie, due mondi.

E certo il Portogallo coloniale, che ha dato la propria lingua al Brasile, non avrebbe mai immaginato nei sogni dell’esploratore Cabral e di Re Giovanni III che nel 2011 l’emigrazione sarebbe andata da Est a Ovest nell’Atlantico. Mentre il Brasile prepara le infrastrutture per il campionato del mondo di calcio 2014 e per le Olimpiadi 2016, tecnici, laureati, operai portoghesi arrivano dal proprio Paese in crisi cercando il benessere perduto. I permessi di lavoro timbrati sui passaporti di Lisbona in Brasile sono triplicati quest’anno, e altri cittadini europei cercano di sfuggire alla crisi nel boom carioca: 51.000 nuovi emigrati, +33%. Lavorano nell’industria, nei progetti pubblici, nei laboratori tecnologici dove ancora il Brasile ha un gap di manodopera specializzata. Sono la nuova emigrazione colta, e, osserva Paulo Sérgio de Almeida del ministero del Lavoro «sono motore del nostro boom». E anche dall’onnipotente Germania si bussa in Brasile, le richieste di lavoro sono aumentate da Berlino dell’86% per i permessi trimestrali e del 31% per i permanenti, concessi raramente e preludio di un’emigrazione con tanto di famiglia al seguito al sole di Rio. Arrivano avvocati, calcola il Financial Times, e docenti universitari, attratti dagli alti stipendi e dall’energia di un Paese che cresce, non declina. Più di tutti arrivano statunitensi e cinesi ma ancora mancano ingegneri e impiegati di banca, elettricisti, donne delle pulizie. I campi petroliferi, oggi meglio sfruttati grazie alle tecnologie, sono a corto di tecnici specializzati.

Quando guarda a questi dati, e alle malinconiche cronache economiche europee del 2011, il premio Nobel indiano Amartya Sen trae una doppia morale, preoccupato per l’eccesso di rigore senza misure sulla crescita nell’Unione Europea e per i possibili stop alla rincorsa, oggi senza freni, dei Paesi emergenti che Jim O’Neill di Goldman Sachs mai avrebbe immaginato, coniando nel 2011 la sigla Bric (Brasile, Russia, India, Cina) per i nuovi Paesi ricchi. Ora O’Neill punta l’attenzione ai «mercati in crescita», quelli che producono almeno l’1% del prodotto interno lordo del Pianeta Terra. Là arriva la ricchezza del 2012, là presto, come oggi in Brasile, si metteranno in coda cercando uno stipendio, orgogliosi americani, europei e cinesi. Parliamo di Indonesia (un quinto del bilancio investito in scuola e ricerca), Sud Corea, Turchia e il Messico di cui ci occupiamo solo per le stragi del narcotraffico.

Forza lavoro specializzata e capitali di investimento sono già con le antenne tese verso le nuove frontiere del benessere, come identificate dagli economisti Robert Barro, Roopa Purushothaman e Dominic Wilson, dove non solo il Pil cresce, ma la democrazia si radica, la giustizia funziona in modo decente, la corruzione non dilaga, le famiglie sono coese, la tecnologia, Internet e telefonia mobile si diffondono. La realtà ha superato l’ottimismo, O’Neill ha sì previsto il boom dei Bric ma sottovalutandolo di ben tre quarti. Malgrado le preoccupazioni presenti, il Brasile non dovrebbe ripetere nel 2012 il boom 2011, raffreddino certi facili entusiasmi, non solo noi italiani e gli inglesi retrocederemo, presto il sorpasso toccherà a Francia e Germania.

Dal boom brasiliano si possono trarre due opposte morali. Una, superficiale che mastica amaro sul «Declino dell’Occidente» già pronosticato dal filosofo Spengler. L’altra, più ambiziosa, sulle opportunità che il mondo nuovo apre a chi sappia faticare e sacrificarsi, vedi il Paese del Nordeste poverissimo oggi gigante economico. Se il «sertao» miserabile dei capolavori di Rocha attrae emigranti da Lisbona, Washington, Pechino e Bonn, perché dare per perdute Spagna, Portogallo, Grecia e Italia?

La Stampa 27.12.11