attualità, politica italiana

"Non è tempo di rigidità", di Giorgio Napolitano

Quello che sta per concludersi è l’anno in cui è stato scosso e messo alla prova come non mai, a sessant’anni dal suo avvio, il progetto europeo e si sono concretizzati per il nostro paese rischi assai gravi, dinanzi ai quali non hanno retto i preesistenti equilibri politici e si sono fatte sempre più stringenti nostre antiche e recenti contraddizioni e insufficienze.
Senza indulgere troppo a ricostruzioni e considerazioni retrospettive, conviene associare agli auguri che ricambio amichevolmente a voi tutti, qualche riflessione sulle condizioni in cui sta per aprirsi il nuovo anno, alla luce delle più recenti evoluzioni del contesto europeo e nazionale.
Rispetto alla crisi dell’Eurozona, alla sua persistente acutezza e alle sue ancora preoccupanti incognite, abbiamo da ultimo per riferimento anche le posizioni e decisioni del Consiglio svoltosi a Bruxelles l’8 e il 9 dicembre. Senza volerne dare qui una valutazione analitica, mi limiterò a rilevare l’impegno e la complessità di quel confronto, l’indubbio rilievo e tuttavia i limiti di alcune novità che sono emerse. Con esse – in continuità col pacchetto di regole già approvate dal Parlamento europeo – si è teso a rafforzare la governabilità e controllabilità delle politiche di bilancio degli stati membri, a prevenire il riprodursi di deficit eccessivi, a procedere verso una vera e propria “fiscal Union”.
Resto convinto che non si debba distogliere l’attenzione da quel che può essere fatto senza indugio entro il quadro giuridico attuale. E non poco resta da fare. Nemmeno con l’ultimo Consiglio è stata ancora eretta una barriera di corresponsabilità e solidarietà sufficiente per bloccare attacchi pesanti, sui mercati finanziari, ai debiti sovrani di stati come il nostro. Sono certo che il governo italiano continuerà a sollecitare in tal senso scelte più coraggiose e coerenti, entro il prossimo marzo, da parte delle istituzioni europee.
Nell’immediato, vanno segnalate come importanti, e seguite nella loro attuazione, le misure adottate l’8 dicembre dalla Banca centrale europea per rafforzare «il necessario impulso della politica monetaria all’economia reale», imprese e famiglie. In quanto alla decisione dei capi di stato e di governo dell’area euro di predisporre un “accordo internazionale” – vista la contrarietà del Regno Unito a procedere a una revisione del Trattato di Lisbona – due mi sembrano le preoccupazioni ovvero le esigenze da esprimere.
La prima: non scavare solchi incolmabili tra paesi che si sono tutti riconosciuti nei fondamenti essenziali del processo di integrazione europea. L’Europa non può in un modo o nell’altro dividersi e frammentarsi, secondo linee geografiche o sulla base di opposte intransigenze e di tendenziali esclusivismi. Comunque, la scelta del far ricorso a un “accordo internazionale” andrà ben chiarita nei suoi rapporti con il contesto comunitario, in particolare con il ruolo della Commissione europea e con quello del Parlamento.
La seconda esigenza è quella di cogliere fino in fondo la lezione della crisi dell’Eurozona in quanto conseguenza dell’incompiutezza e contraddittorietà del cammino seguito dall’Unione dopo Maastricht. E la lezione dovrebbe esser chiara: occorre non solo una politica monetaria, ma una politica fiscale, di bilancio e macroeconomica effettivamente europea, come oggetto di sovranità condivisa sotto la responsabilità politica dell’Unione, di sue credibili autorità di governo.
Insomma, piaccia il termine oppure no, è verso un’Europa più federale, di certo più integrata e più forte nella sua capacità di parlare e agire all’unisono, che è giocoforza muoversi. E’ di qui che passa l’affermazione non solo di una cultura della stabilità e di una prassi condivisa di stabilizzazione finanziaria, ma insieme di una cultura dello sviluppo e di una nuova strategia di crescita per l’Europa : quella che oggi latita, nonostante l’incombere della recessione.
Quanto ho detto finora può essere apparso una lunga digressione, ma in effetti è premessa e parte integrante di un’agenda per l’Italia nel tempo che viviamo, nell’anno che ci attende. D’altronde i problemi e le decisioni su cui ci stiamo oggi concentrando non hanno come quadro di riferimento precisamente quel che accade in Europa e nelle istituzioni dell’Unione, ovvero lo sforzo per fronteggiare e superare una crisi che è – in un complesso e incerto quadro globale – inscindibilmente italiana ed europea? E che cos’è il provvedimento in via di definizione in parlamento se non il contributo che offriamo alla causa della salvezza dell’euro, attraverso uno sforzo ulteriore che dobbiamo insieme e innanzitutto all’Italia per salvarla da rischi estremi ancora evidenti?
A ben vedere, questo è anche il senso del passaggio politico compiutosi nel nostro paese nel corso dell’ultimo mese. Passaggio da un’ordinaria, benché distorta, dialettica tra maggioranza e opposizione parlamentare in una logica di competizione bipolare, a un tentativo di mobilitazione straordinaria, la più vasta e consapevole, anche sul piano politico, in funzione di decisioni di emergenza a cui non ci si poteva più sottrarre. La soluzione di governo cui si è giunti un mese fa ha costituito lo sbocco di un lungo travaglio politico e infine di una serena, obbiettiva riflessione.
La maggioranza di governo scaturita dal voto del 2008 e dal meccanismo elettorale maggioritario, era stata già da tempo segnata da una rottura pubblica e aveva visto via via ridursi la sua coesione e stabilità e quindi accrescersi le sue difficoltà di decisione e di iniziativa. E quanto più appariva necessaria un’ampia convergenza attorno a scelte difficili e impegnative, tanto più risultava penalizzante il clima aspramente divisivo radicatosi nei rapporti politici. La sostenibilità anche internazionale di tale stato di cose era giunta a un punto limite. A me toccava solo registrare e seguire imparzialmente le reazioni delle forze in campo.
Fino a quando il presidente del consiglio Berlusconi, prendendo atto di una situazione così critica, dopo l’esito negativo di una votazione significativa in parlamento, si è risolto, con senso di responsabilità, a rassegnare le dimissioni.
Il tentativo di evitare un immediato scioglimento delle camere e ricorso alle urne, viste le ricadute dirompenti che ciò avrebbe potuto avere per il nostro paese nel burrascoso contesto dell’Eurozona, visto cioè l’incombere sull’Italia di un catastrofico aggravarsi della crisi finanziaria, era un mio preciso dovere istituzionale.
E la via obbligata da percorrere era quella di affidare la formazione di un nuovo governo a una personalità rimasta sempre estranea alla mischia politica, già sperimentata in funzioni di governo esercitate correttamente, per riconoscimento bipartisan, nell’arco di dieci anni al livello europeo, e dotata di indubbia autorevolezza internazionale.
Di qui l’incarico al senatore professor Mario Monti. Peraltro, la lunga irriducibile contrapposizione, al limite della incomunicabilità, determinatasi tra gli schieramenti di maggioranza e di opposizione, ha reso impraticabile ogni ipotesi di larga coalizione di governo, come il presidente incaricato ha potuto ben presto constatare. Tale impraticabilità si è tradotta nell’opzione delle stesse forze politiche a favore della non partecipazione di personalità di partito al nuovo esecutivo. Quello che è stato chiamato un “governo tecnico” o “di tecnici” non è stato che la conseguenza dell’opzione che ho ricordato.
La fiducia che un larghissimo arco di forze ha accordato in parlamento al governo Monti è stata al tempo stesso chiara espressione della convinzione largamente condivisa che occorresse scongiurare, in una fase così critica, una paralisi dell’attività di governo e parlamentare e uno scontro elettorale devastante.
È del tutto evidente che la soluzione della crisi apertasi con le dimissioni dell’on. Berlusconi non si è collocata entro i binari di un ordinario succedersi alla guida del paese di schieramenti che abbiano ottenuto la maggioranza nelle elezioni. Ma nessuna forzatura, né tantomeno alcuno strappo si è compiuto rispetto al nostro ordinamento costituzionale.
Solo con grave leggerezza si può parlare di sospensione della democrazia, in un paese in cui nulla è stato scalfito: né delle libere scelte delle forze politiche, né delle autonome determinazioni del parlamento e delle altre assemblee rappresentative, né delle prerogative degli organi di garanzia, né delle possibilità di espressione delle proprie istanze, e di manifestazione del proprio dissenso, anche da parte delle forze sociali.
E non mi risulta che si sia gridato allo scandalo per una presunta sospensione della democrazia in un altro grande paese europeo governato di norma secondo la prassi dell’alternanza tra diverse coalizioni politiche, la Germania, quando ancora in anni recenti essa è stata guidata per un’intera legislatura da una “grande coalizione”. Né mi risulta che si sia gridato al tradimento della volontà popolare in un egualmente grande paese, la Gran Bretagna, considerata un modello di rigido bi-partitismo, quando il partito che ha ottenuto alle elezioni la maggioranza relativa in parlamento ma non, sia pure per poco, quella assoluta, si è impegnato – per evitare un improvvido ritorno alle urne – in un’inedita e non preannunciata alleanza con un altro partito già suo concorrente.
La verità è che si vive nei paesi della nostra Europa una fase storica di drammatiche sfide esterne, di mutamento e di disagio sociale e politico, e può imporsi la necessità anche di soluzioni di governo fuori degli schemi tradizionali. E governi di grande coalizione, di unità nazionale, o di tregua e di transizione, sono risorse, sono riserve su cui i sistemi politici democratici debbono poter contare, e hanno contato, in momenti particolari, in situazioni bloccate o senza facili vie d’uscita.
In Italia, nel momento in cui la parola tornerà ai cittadini per l’elezione del parlamento – e la data-limite è già segnata dal termine naturale della legislatura – ciascuna forza politica avrà modo di prospettare l’alleanza tra partiti e la formula di governo che considera più appropriate nell’interesse del paese e in funzione delle quali chiede il consenso ai cittadini.
Ho già detto come la formazione del governo Monti abbia corrisposto a uno stato di necessità e alla scelta dei partiti di non parteciparvi con propri esponenti. I ministri sono stati liberamente scelti dal presidente del consiglio e da lui proposti, come vuole l’articolo 92 della Costituzione, al presidente della repubblica, che ha proceduto a nominarli nello stesso spirito di cooperazione istituzionale in cui aveva recepito le proposte sottopostegli a suo tempo dal precedente presidente del consiglio.
La Costituzione non prescrive che i membri del governo, a cominciare dai ministri, debbano essere parlamentari e rappresentanti ufficiali dei partiti, debbano essere – come si usa dire – dei politici e non dei tecnici. Ma non persuade l’uso di quest’ultimo termine. Più semplicemente, sono state chiamate da qualche settimana a far parte del governo persone politicamente indipendenti, che hanno accettato di porre al servizio del paese le competenze ed esperienze di cui sono portatrici. Il governo così composto può adottare e proporre decisioni necessarie benché talora controverse, ostiche, persino impopolari, senza essere condizionato da vincoli di convenienza partitica ed elettorale.
Aver dato fiducia a questo governo è stato segno di consapevolezza dell’estrema difficoltà del momento: è, per i partiti che lo hanno deciso, titolo di merito, non motivo di imbarazzo. L’ampiezza e la continuità del sostegno allo sforzo appena avviato – in quanto prova di un condiviso senso di responsabilità e impegno costruttivo delle forze politiche – è ciò che più rafforza e può rafforzare la credibilità dell’Italia.
Il ruolo della politica resta insopprimibile, non è neppure temporaneamente oscurabile. La formula del governo dei tecnici non è, dunque, da idoleggiarsi. Ma è necessario che i partiti facciano la loro parte, nella fase di transizione che si è avviata; la facciano rinnovandosi, aprendosi nuovamente alla società, acquisendo e valorizzando più fresche, giovani energie, ridefinendo e arricchendo le loro piattaforme ideali e programmatiche. Le loro diversità non sono state cancellate, le loro identità non sono state confuse da una convergenza straordinaria e temporanea nel pressante interesse del paese.
E facciano la loro parte nell’ampio spazio che hanno da occupare in questa fase, non solo nel rapporto col governo – un rapporto di distinzione e di corresponsabilità – ma più in generale nell’arena parlamentare, e sempre nell’ascolto del paese. C’è un programma del governo che non è onnicomprensivo, che non abbraccia temi rispetto ai quali è al parlamento, e dunque ai partiti, ai gruppi politici in parlamento, che spetta proporre soluzioni, concertarle a conclusione di un costruttivo confronto e approvarle.
Mi riferisco a temi di riforma istituzionale e anche costituzionale: mi si consenta di non tornare a indicare revisioni ordinamentali, modifiche della seconda parte della Carta, nonché modifiche dei regolamenti parlamentari, su cui già all’inizio della legislatura avevo creduto di poter registrare una tendenziale larga intesa. Purtroppo in questi anni non si è giunti alle decisioni che si attendevano e che oggi appaiono auspicabili, anche a proposito di legge elettorale. Ebbene, si recuperi il tempo perduto in un sussulto conclusivo di operosità riformatrice e di fecondità del parlamento, della legislatura, dei partiti.
Ritengo che ciò non sia impossibile, anche grazie al clima più disteso che si intravede nei rapporti politici, messi per così dire al riparo da un’esasperazione patologica del conflitto tra governo, maggioranza e opposizione. Consolidare questo clima è una delle grandi opportunità che si presentano nella fase attuale, anche per creare condizioni più serene in vista della competizione elettorale e del successivo, normale svolgimento della dialettica democratica. (…).
Guardiamo così al domani, nel fare i conti con le urgenze di oggi. In molti casi, queste si proiettano infatti in un orizzonte più lungo: l’emergenza giustizia, a cominciare dalle carceri, o l’emergenza economica e sociale Mezzogiorno, cui il governo sta mettendo mano, ripropongono l’esigenza di politiche non di breve termine. Così come l’urgenza che più ci incalza, quella del consolidamento dei conti pubblici, e la preoccupazione già oggi centrale e ineludibile di un rilancio della crescita e dell’occupazione, possono e debbono trovare risposte immediate ma resteranno di certo all’ordine del giorno anche nei prossimi anni, nella prossima legislatura.
Abbiamo perciò bisogno della straordinaria convergenza parlamentare appena avviatasi ma anche, successivamente, di un più sereno confronto tra forze protagoniste di una rinnovata democrazia dell’alternanza.
Alla fiducia nel confermarsi, ora, di un clima più disteso nei rapporti politici, unisco l’augurio che anche nel dibattito pubblico e nel confronto sociale su questioni e scelte di grande complessità prevalgano obbiettività e senso della misura. La triade del perseguire il rigore cui non ci possiamo sottrarre nella politica di bilancio, dell’intervenire con equità, e del puntare su una nuova prospettiva di crescita e sviluppo, non solo costituisce un esercizio assai arduo nell’immediato ma richiederà grande accortezza ed equilibrio anche nel futuro.
Ad esempio, per quel che riguarda l’equità, sappiamo che nella gestione della cosa pubblica e nella società italiana sono penetrati e si sono cristallizzati molti e diversi fattori di stridente disuguaglianza e iniquità: su cui lo stato dovrà via via attrezzarsi per incidere sempre più efficacemente.
E allora – non lo dico soltanto in rapporto all’attualità, ma anche agli interventi e alle scelte su cui ci sarà da confrontarsi nel futuro – credo non giovino, qualunque posizione di principio o gruppo sociale si rappresenti, i giudizi perentori, le battute sprezzanti, le contrapposizioni semplicistiche.
Si discuta liberamente e con spirito critico, ma senza rigide pregiudiziali e non rifuggendo da spinose assunzioni di responsabilità. Intanto, in tempi così difficili per il paese, si blocchi sul nascere ogni esasperazione polemica. Aggiungo che qualsiasi tema ci sia da discutere, oggi o domani, e a qualsiasi tavolo, è necessario dare seriamente la priorità alle condizioni dei “non rappresentati”, dei giovani senza lavoro o con deboli prospettive di occupazione e di pensione.
Il dovere di rispondere alle attese dei giovani, la necessità di valorizzare le risorse che essi e le donne oggi fuori del mercato del lavoro rappresentano, insieme con l’obbligo morale di non scaricare sulle spalle delle nuove e delle future generazioni il fardello di un proibitivo debito pubblico, sono le ragioni fondamentali dei sacrifici che si stanno chiedendo agli italiani di ogni ceto sociale. Nel proporli e deciderli, non ci si piega ad alcun diktat esterno, né ad alcun precetto di ortodossia monetarista, e non si dimentica l’imperativo della crescita.
Ci son cose che avrebbero dovuto apparire chiare da lungo tempo, e ben prima che la situazione minacciasse di precipitare, e che a taluno apparvero chiare già più di 20 anni fa. Mi riferisco a una delle maggiori figure di parlamentare e di uomo di governo dell’Italia repubblicana, l’onorevole Nino Andreatta, onorato alla camera nei giorni scorsi. Nell’intervenire sul bilancio e sulla legge finanziaria per il 1990 egli rilevò come al già allora indispensabile risanamento dei conti dello stato si opponesse – nella cultura politica corrente – la tendenza «a sopravvalutare l’effetto della spesa pubblica sullo sviluppo del paese» e a non tenere conto invece «degli effetti profondamente distorcenti che l’accumulo del debito pubblico e l’alto deficit hanno sull’attività produttiva». Quella lezione purtroppo inascoltata per troppi anni resta più che mai valida oggi (…)
È giusto chiedere che si assumano concretamente e senza indugio le loro responsabilità anche le forze politiche e il parlamento per quel che riguarda i necessari sacrifici finanziari e un non meno importante rigore nella riforma degli apparati istituzionali e dei loro costi. Ma c’è una tendenza, che sta diventando assordante, a svalutare ogni passo si compia in queste direzioni e ad alimentare reazioni di rigetto verso i politici, la politica, le istituzioni rappresentative. Invito a una seria riflessione sulla crescente pericolosità di questa tendenza.
Concentriamoci dunque sulle maggiori sfide che il paese ha davanti a sé, sui rischi cui è esposto, innanzitutto sul piano finanziario, nel turbine della crisi dell’Eurozona. Col decreto in via di approvazione in parlamento si pongono difese e premesse: ma la strada è lunga, e in salita. Possiamo farcela solo – non mi stanco di ripeterlo – attraverso un grande sforzo collettivo, una grande mobilitazione morale, civile, sociale.
Ho fiducia che ci stia aiutando in tal senso e ci aiuterà l’esperienza della partecipazione straordinariamente diffusa e significativa alle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Il paese ne è uscito più sicuro della sua identità, riconciliato con la propria storia ben più di quanto potesse prevedersi.
Abbiamo legato l’idea-forza dell’unità a istanze essenziali di diversità, pluralità, solidarietà, sussidiarietà, e al concreto impegno del superamento del centralismo statale. Si è in pari tempo confermata l’artificiosità e vanità della predicazione secessionista. Riscoprendo, con il percorso del Risorgimento e dello stato unitario, il senso e il valore di quel che ci unisce, il paese si è meglio predisposto a quel grande sforzo collettivo che ormai si impone. (…)
Non lasceremo turbare questa coesione, che non significa peraltro appiattimento o compressione delle diversità, dal virus della violenza, in qualsiasi sua manifestazione, da quella dell’ignobile intolleranza razziale a quella dell’infiltrazione con intenti eversivi e distruttivi nella pacifica protesta politica e sociale, fino all’estremo di nuovi rigurgiti terroristici. La vigilanza e la fermezza, non solo dei vertici dello stato, dovranno essere risolute e costanti. (…)

(dal discorso di ieri alla cerimonia per lo scambio degli auguri con le alte cariche dello stato)

da Europa Quotidiano 21.12.11