attualità, lavoro

"C'era una volta Bologna a misura di donna", di Elisabetta Gualmini

Serve una cocciutaggine non comune alle donne italiane per riuscire a lavorare, a crescere i figli e a occuparsi delle innumerevoli attività di cura sia dentro che fuori casa. E così le donne si incamminano rassegnate in due in opposte direzioni, entrambe senza via d’uscita. O si entra nel mondo della produzione e ci si barcamena malamente tra lavoro dentro e fuori casa, lavorando 36 minuti al giorno in più degli uomini, ricevendo una remunerazione spesso inferiore e con scarse possibilità di carriera, ma in compenso con una esposizione record allo stress-lavoro correlato, oppure il lavoro non lo si cerca nemmeno e si rimane a casa con annessa riprovazione sociale per essere “regine del focolare” che per loro comodo non fanno girare l’economia.
Tra questi due fuochi si trovano anche le donne, giovani e meno giovani, di Bologna. Città un tempo ambita da ogni “working girl” o aspirante tale. I dati snocciolati ieri dall’Osservatorio provinciale del mercato del lavoro fanno rabbrividire. L’emorragia di disoccupatiè incontenibile e non risparmia nessuno (+13% tra il 2010e il 2011): giovani, donne e uomini nella fase centrale del ciclo lavorativo (tra i 35 e i 45 anni). Circa 75.000 persone senza occupazione di cui la maggioranza donne (il 55%).

ANCORA più allarmante tuttavia il fenomeno dello scoraggiamento. Le donne hanno ormai deciso di non cercarselo nemmeno più un lavoro perché le aspettative di trovarlo sono quasi nulle. Il tasso di partecipazione al mercato del lavoro scende ancora più rapidamente di quello di occupazione, un segnale inequivocabile di una recessione ancora molto dura. D’altro canto, se il Ministro dello Sviluppo economico afferma che “la situazione è anche peggio di quanto ci si aspettava” e le stime per il 2012 prevedono una decrescita del Pil pari all’1,6%, è difficile scorgere all’orizzonte segnali positivi.

Tornando a casa nostra, forse proprio in una città a forte vocazione terziaria e dove è massiccia la diffusione dei servizi alla persona, è arrivato il tempo di non parlare più e solamente di crescita (che pure è un obiettivo imprescindibile), ma di includere anche le attività di cura nel mondo della “produzione”, rovesciando completamente il paradigma con cui si guarda al lavoro e al lavoro delle donne. Già nel 1972 economisti come Tobin e Nordhaus si chiedevano se la crescita fosse un indicatore insufficiente e obsoleto. Provare a riconoscere e remunerare il lavoro di cura delle donne, in tempi di crescita nulla e di forte invecchiamento demografico,è direzione da percorrere. Con investimenti non particolarmente onerosi Regione, Provincia e Comune potrebbero finanziare le mille occupazioni di assistenza intensificandoi voucher e i buoni lavoro, così come in Francia, utili per acquistare altri servizi o beni di consumo.

Si è già detto che la deducibilità dell’Irap per le imprese che assumono donne (e giovani), varata con la manovra Salva Italia, è un primo passo. Ma serve ancora altro. Bisogna rendere le politiche di conciliazione, part-time e congedi di genitorialità, più “genderneutral”. Servono cioè politiche o interventi che sostengano le scelte di lavoro e di famiglia di uomini e donne. Nei paesi scandinavi e in Francia, le politiche pubbliche sono indirizzate sia agli uomini che alle donne che lavorano: i congedi non troppo lunghi sono fruibili da ambedue i genitori, anche part time, sono stati introdotti servizi di vario generee tipologia per i genitori, è previsto il telelavoro da casa, sempre per ambedue i genitori. E in quei paesi, la partecipazione femminile al mercato del lavoro e la fertilità sono più alte che nel resto d’Europa. Anche in questo caso, dopo gli interventi finanziari ai margini, dopo il risanamento, servirà che il governo e la sua composita maggioranza mettano mano alle riforme. Questa è la letterina che le donne di Bologna potrebbero depositare sotto l’albero natalizio di Montecitorio. O almeno è la mia.

Repubblica/Bologna 18.12.11