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"Il Pd e l’orgoglio di salvare l’Italia", di Alfredo Reichlin

I democratici stanno ridefinendo il loro profilo come partito della nazione e non basta più dire le cose di prima. Bisogna ridefinire il patto sociale e politico per dare forza a una nuova idea di Europa. Mi sembra importante ragionare sul ruolo politico che il Pd sta giocando e sul significato delle responsabilità che ci siamo assunti rispetto alle sorti incerte della democrazia italiana. Non voglio qui ripetere le cose dette sullo stato di straordinaria emergenza in cui ci muoviamo. Né tornare sulla semplice verità che il dovere di «salvare l’Italia» è la condizione per evitare il massacro del mondo del lavoro italiano. Qualcosa come in Grecia: drastico taglio dei salari, licenziamenti in massa, gli ospedali che non hanno più i soldi per comprare i medicinali stranieri. Spero che questo rischio per noi si stia allontanando. Voglio solo aggiungere qualcosa sul perché il Pd dovrebbe andare a questa prova con più orgoglio. L’orgoglio di una forza che sta ridefinendo il suo profilo come quel partito della nazione di cui un paese così diviso ha assolutamente bisogno e che comincia ad avere una visione più chiara delle nuove sfide che ci stanno di fronte.
Però qui è il nostro banco di prova. È adesso, è oggi. Dopo molti anni è nel fuoco di una drammatica emergenza che le forze politiche, le culture, gli assetti sociali e perfino le basi morali dell’Italia di domani sono costrette a ridefinirsi. Ma la condizione è che questo Paese non si dissolva. Esiste quindi è vero uno stato di necessità. Ma non è solo questo che muove il Pd. Tra tante difficoltà, tanta confusione anche a sinistra e tanti errori di un governo che non è il nostro, noi dobbiamo essere pienamente consapevoli del salto che sta avvenendo e in parte è già avvenuto nella lotta politica italiana. Non si ritornerà più al gioco di prima, così come era giocato dai partiti di prima. Anche noi potremmo perdere agli occhi della gente ogni significato, prestigio e capacità di guida se non scendessimo sul terreno nuovo e più avanzato che si è creato. Stiamo attenti. Che significa proporsi come una alternativa reale e chiedere la fiducia della gente? Non basta più dire le cose di prima. La lotta per l’egemonia (per un partito a vocazione maggioritaria, per dirla come Veltroni) comporta avere uno sguardo più lungo e la capacità di muoversi non solo sul terreno nazionale. Vin-
cerà chi penserà le alternative politiche nel quadro dei grandi spazi dell’Europa dove è in atto una guerra, la guerra per l’euro la quale non riguarda solo la moneta ma il chi comanda e quale ruolo assume il vecchio continente nel mondo nuovo. Bisognerebbe leggere il magnifico discorso di Helmut Schmidt sul ruolo storico della Germania al congresso della socialdemocrazia tedesca. Le «escort» di Berlusconi hanno nascosto per troppi anni la realtà vera, ed è anche questo che ha consentito alla destra di saccheggiare la nazione italiana. Ma la colpa non è solo degli altri. La verità è che abbiamo toccato con mano i limiti dei vecchi partiti. E anche quando il gioco tornerà in un Parlamento nuovo, eletto e non nominato, dovremo tener conto che è cambiato il rapporto tra la politica e le tecno-strutture. Dire «Salvare l’Italia» non è quindi retorica. È la condizione per muoversi sul terreno su cui oggi, non domani (quando vinceremo) si costruiscono le alternative.
A volte mi sembra di rivedere il vecchio Marx che torna a spiegarci il senso delle cose. Non voglio spaventare nessuno. Voglio solo notare che il premier britannico Cameron ha abbandonato la riunione di Bruxelles quando si è cominciato a discutere sul come difendere l’euro, finora moneta a rischio perché senza Stato e quando, quindi, si è posto il problema per come dare ad esso, finalmente, una sovrastruttura politica in grado di regolare i mercati finanziari. È a questo punto che il vero liberale ha sbattuto la porta con l’argomento (esplicito, non mascherato), che non poteva danneggiare la City, cioè il luogo dove l’alta finanza ha il potere di muovere, senza alcun controllo, i grandi capitali, anche quelli speculativi.
Dovremmo quindi cercare di uscire da dispute del tutto vane come quelle sulla famosa e terrificante «foto di Vasto». Tanto più vane perché sta nelle cose la ragione vera, di fondo, che dovrebbe spingere il Pd tutto il Pd ad allargare la sua base politica e culturale e dare un fondamento più forte alla alleanza della sinistra con i democratici moderati. Basterebbe allargare la visione delle cose e chiederci perché la crisi che stiamo vivendo è così devastante. Al fondo, la spiegazione sta nel fatto che il patto politico e sociale che è stato alla base della democrazia europea è in disfacimento. Di questo si tratta. Non è un problema tecnico da affidare ai tecnici. Il ruolo del riformismo è affrontare la grandezza e la drammaticità di questo passaggio per proporre un nuovo patto sociale, ed è capire meglio che cosa è in gioco, che tipi di assetti della vita sociale sono in discussione, quali compromessi storici stanno saltando. Non si fa grande politica senza un linguaggio, è questo non può ridursi alle banalità del giornalismo o all’economicismo dei tecnici.
Di quali mercati si va parlando? Si sono rovesciati i rapporti di forza tra i governi e le multinazionali, tra il capitale e il lavoro, tra la politica e l’oligarchia finanziaria. È diventata abissale la distanza tra chi produce la ricchezza reale e chi specula sui movimenti finanziari, creando così una enorme rendita che poi la povera gente deve pagare. Non pretendo di aggiungere nulla alle tante analisi. Mi chiedo se noi abbiamo misurato abbastanza gli effetti dell’enorme squilibrio che è in atto nella distribuzione della ricchezza e quindi nel mondo dei valori e dei significati dell’esistenza. Non mi sembra un piccolo problema. La ricerca senza limiti dei guadagni in conto capitale ha fatto sì che valori come lealtà, integrità, fiducia, significati della vita, venissero via via accantonati per fare spazio al risultato monetario a breve termine.
I tecnici sono importanti ma non è vero affatto che la politica ha perduto spazio. Non condivido certi ragionamenti che poi, alla fin fine, tendono tutti a squalificare la sinistra che c’è e che sta tenendo botta. È vero che governare significa arbitrare una crescente complessità e varietà di poteri (non solo economici). Bisogna tener conto della dimensione e del condizionamento internazionale dei problemi e ciò comporta l’uso di agenzie e di strumenti di conoscenza che i partiti non hanno. Ma non è vero affatto che non servono più i partiti. La vera, grande, novità che emerge dal modo come il super capitalismo finanziario ha sconvolto i legami sociali è che per garantire il «governo lungo» della società più che mai ci vogliono organismi ai quali spetta rendere chiara e mettere in campo un’agenda politica più vasta. Questo è il punto. Il partito come «padrone» del governo recede, ma come fattore guida della comunità avanza più di prima sulla scena. Un partito può anche apparire meno utile come strumento di potere, ma più che mai di c’è bisogno partiti che si pongono come guida etico-politica e come riformatori della società, in quanto capaci di mobilitare forze, intelligenze e passioni. Io credo che questo è il compito del Pd, che qui sta il suo grande spazio, e che questo è ciò che rende necessario questo strano miscuglio di culture socialiste e cattoliche.

L’Unità 17.12.11

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