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"La Bce ha le cartucce, le usi", di Lucrezia Reichlin

La settimana scorsa la Banca centrale europea (Bce) ha annunciato nuove misure anti-crisi e affermato con una forza inaspettata la sua intenzione di non intervenire sul mercato dei titoli pubblici. Questo ha lasciato tanti delusi. Ingiustamente. I nuovi interventi Bce sono molto pesanti. Nel vecchio stile della Bundesbank, il presidente dell’istituto, Mario Draghi, parla da conservatore ma agisce in modo pragmatico. Il pacchetto non solo costituisce un’ingente immissione di liquidità nel sistema finanziario, ma comporta un rischio di credito nel bilancio delle banche centrali oltre a fornire una possibilità indiretta di finanziamento del debito pubblico. Nonostante i rischi che esse comportano, le misure sono necessarie, ma forse meno efficaci e più rischiose di un intervento sul mercato dei titoli pubblici con un target preciso sugli spread.
Con il nuovo pacchetto, le banche possono fare operazioni a pronto termine con la Bce a un tasso dell’1%, con un orizzonte fino a tre anni e offrendo in garanzia titoli (collaterale) i cui requisiti di qualità si sono molto allentati. In alcuni casi il mercato privato per quei titoli non esiste, cioè il prezzo di mercato è zero, ma le banche hanno interesse ad acquistarli solo al fine di poterli usare come garanzie a fronte dei prestiti Bce. In questo modo la Banca centrale rende liquidi mercati che non lo sono più, tenendoli in vita ed evitando la loro paralisi. Questo non è molto diverso da quanto fatto dalla Federal Reserve negli Stati Uniti soprattutto nelle prime misure anti crisi adottate nel 2008. Operazioni chiamate di «credit easing», ossia facilitazione del credito.
Con il «credit easing» la Banca centrale crea liquidità, ma assume un rischio di credito in bilancio che, nel caso dell’Eurosistema, viene ripartito in base alla dimensione del Paese indipendentemente dalla sua esposizione. Se il mercato riparte, il rischio non si materializza (la Federal Reserve ha finito per guadagnarci con il suo «credit easing», per esempio), ma in uno scenario negativo l’aumento del rischio produrrà la necessità di ricapitalizzazioni o addirittura di emissione monetaria.
Un altro aspetto importante del pacchetto è che le banche possono ora ottenere liquidità anche dalle loro banche nazionali offrendo a garanzia quei prestiti nel loro bilancio che non sono accettati nelle operazioni con Francoforte. Questo comporta un ulteriore allentamento della qualità delle garanzie. Inoltre, qualora il rischio su queste operazioni si materializzasse, le perdite sarebbero imputate alla Banca centrale del Paese dell’istituto di credito (e quindi al suo Tesoro) e non condivise dall’Eurosistema. In qualche modo questo costituisce un ritorno alla decentralizzazione, giustificato dalla natura quasi «fiscale» di queste operazioni. Infatti, anche se la motivazione delle operazioni è la liquidità, si rischia di tenere in vita, in alcuni casi, istituzioni finanziare il cui problema è la solvibilità e che quindi necessiterebbero un intervento pubblico.
Ci sono altri intrecci tra le nuove misure di politica monetaria e le politiche fiscali o di bilancio. Il legame è quasi diretto quando in cambio di liquidità si accettano come collaterali titoli di Stato il cui mercato non c’è piu. Pensiamo a quanto è successo per la Grecia per esempio: la Bce ha creato un incentivo alle banche a comprare quei titoli che altrimenti non avrebbero trovato acquirenti. C’è anche un legame indiretto. Le banche italiane, per esempio, possono usare come collaterali obbligazioni bancarie garantite dallo Stato. Lo Stato, come previsto dalle misure del governo Monti, fornisce garanzia a obbligazioni che altrimenti non sarebbero sottoscritte e queste vengono poi usate dalle banche per ottenere fondi all’1% dalla Bce.
Se le banche utilizzassero poi questa liquidità per comprare titoli di Stato, non soltanto ne otterrebbero un grande vantaggio economico, ma sosterrebbero indirettamente il mercato del debito pubblico, cosa che la Bce non può fare direttamente. Naturalmente questo significa creare un’enorme correlazione del rischio. Se lo Stato sovrano cade, anche le banche cadranno e viceversa.
Misure ben ambiziose quindi, ma non prive di rischi, rischi d’altronde presi da altre Banche centrali che hanno agito in forma diversa ma nello stesso spirito per far fronte alla crisi.
Da qui una domanda e una osservazione. La domanda. Non sarebbe più trasparente e meno rischioso per la Bce intervenire direttamente sul debito pubblico annunciando un target sugli spread dei tassi sul sovrano? L’osservazione. L’esperienza recente degli Stati Uniti e della Banca d’Inghilterra e quella del Giappone dieci anni fa, ci dice che l’effetto sui tassi di interesse delle misure di «credit easing» è dovuto soprattutto all’effetto della comunicazione della Banca centrale al momento del loro annuncio. Questo perché le parole che si usano hanno un effetto sulle aspettative dei mercati e ne influenzano i comportamenti. Draghi, ieri a Berlino, ha parlato di quanto la Bce faccia per le banche, ma le parole usate nella conferenza stampa a Francoforte pochi giorni prima non sono parse in sintonia con l’ambizione dell’azione monetaria che si annunciava in quella occasione e le sue conseguenze per il ruolo dell’Istituto nel finanziamento del debito sovrano. La Bce, imprigionata dal complicato rapporto con la Germania, fa senza dire, negandosi quindi uno strumento fondamentale della politica monetaria. Ma questi non sono tempi in cui ci si può permettere di non usare tutte le cartucce.

Il Corriere della Sera 16.12.11