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"Liberalizzazioni, carniere (quasi) vuoto", di Dario Di Vico

È difficile dar torto ai delusi delle liberalizzazioni. Questo governo ha in squadra Mario Monti e Antonio Catricalà, il commissario europeo antitrust per antonomasia e l’ex presidente dell’autorità per la concorrenza, eppure si presenta con il carniere quasi vuoto. Le liberalizzazioni, dicono i sacri testi, sono importanti per un doppio ordine di motivi, creano un ambiente imprenditoriale propedeutico alla crescita e Dio sa quanto in questa congiuntura ne abbiamo bisogno. In qualche caso poi l’apertura dei mercati produce in tempi brevi nuovi posti di lavoro. Non è automatico ma è sicuramente una condizione necessaria.
In Italia il campo delle deregolazioni da attuare è vasto, proviamo a vedere come si è mosso il governo, dove ha trovato resistenza e dove forse non ha affondato il colpo per oggettiva debolezza. Se prendiamo in esame gli interessi dei grandi monopoli è facile individuare almeno tre dossier di grande interesse: il gas, le concentrazioni televisive e le autostrade. Nei primi due casi un difensore d’ufficio della coppia Monti-Catricalà sosterrebbe che sono mancati i tempi tecnici. Una scelta di liberalizzazione in quei due campi richiede una preparazione accurata e in trenta giorni nessun governo sarebbe stato capace di concludere alcunché. Però sulle autostrade l’esecutivo dei tecnici ha sicuramente segnato il passo, dando oggettivamente spazio alle dietrologie interessate. La materia autostradale in un primo tempo rientrava tra le competenze della nuova authority dei trasporti, nel secondo tempo invece ne è rimasta fuori? Cosa è successo nell’intervallo? Ci sono state pressioni sull’arbitro? E chi sono stati i Moggi della situazione?
In una seconda tipologia di deregolazioni possiamo comprendere quelle che riguardano poteri categoriali diffusi: libere professioni, farmacie e taxi. Liberalizzazioni che non sono mai andate avanti in Italia non tanto per l’esplosività del contenzioso politico ad esse legato quanto per la capacità delle categorie di intessere rapporti di scambio elettorale con quote significative di parlamentari. Questa condizione ostativa con un governo di tecnici non dovrebbe esistere, eppure la gestazione delle misure di deregulation è stata un entra-ed-esci. Risultato: i taxisti cantano vittoria, i farmacisti pure e gli Ordini hanno perlomeno allontanato l’amaro calice. Sia chiaro, la tesi tremontiana (e non montiana) secondo la quale la liberalizzazione dei taxi riguarda solo tre città risponde al vero, ciò non toglie però che nell’immaginario liberal la sconfitta della lobby del 3570 o del 4040 valga quanto una sanzione a Microsoft. E allora se il governo ha dovuto, almeno per ora, ritirarsi il motivo è sempre lo stesso, i modernizzatori non hanno un «popolo» da mobilitare mentre le lobby fanno presto a minacciare la paralisi del traffico o dell’aspirina. I consumatori si lamentano ogni giorno del servizio taxi, li vedete però andare in piazza per la liberalizzazione? E a loro volta le associazioni delle parafarmacie sono troppo deboli per reggere l’urto dei farmacisti. Idem per i giovani architetti e avvocati che sostengono la meritocrazia e non gli Ordini ma purtroppo non hanno sufficiente voce per far valere le loro istanze. Morale: un governo tecnico non deve far politica ma può spiegare all’opinione pubblica i vantaggi sistemici delle deregolazioni, senza un’operazione di questo tipo anche le piccole lobby ce la fanno a frenare.
Se questa è la lista dei rimpianti dei liberalizzatori sarebbe sbagliato omettere ciò che di innovativo il governo ha fatto. Liberalizzare gli orari del commercio e, soprattutto, dare all’autorità antitrust il potere di impugnare le delibere degli enti locali nell’affidamento dei servizi pubblici non è una novità da poco. È una picconata al nostro socialismo municipale. Per un governo classicamente incardinato sui partiti sarebbe stato molto più difficile assestarla.

Il Corriere della Sera 15.12.11

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Bersani: “Stupefatto da liberalizzazioni deboli”, di ALBERTO D´ARGENIO

Partiti perplessi, fiducia in arrivo. Il decreto “salva-Italia” firmato da Mario Monti sbarca in aula alla Camera. La Lega fa ostruzionismo, presenta cinquanta emendamenti e iscrive tutti i suoi a parlare. Quindici minuti per ognuno dei sessanta onorevoli padani. La seduta fiume si protrarrà per tutta la notte con i soli leghisti in aula. Poi, alle dieci di questa mattina, il governo metterà la fiducia. Domani il voto, con il via libera definitivo di Montecitorio previsto intorno a ora di cena. Quindi toccherà al Senato. Ma i partiti storcono il naso. Bersani è insoddisfatto, Berlusconi perplesso, Di Pietro annuncia il voto contrario.
Dalla festa del Milan Silvio Berlusconi dice che lui e il suo partito hanno «molte perplessità» sul decreto anche dopo le modifiche decise in commissione bilancio nella notte tra martedì e mercoledì. Ma il Pdl voterà. Così come il Partito democratico, anche se il segretario Bersani si dice «stupito, per non dire stupefatto, della debolezza sulle liberalizzazioni: su questo la questione è ancora aperta». Via Twitter l´ex ministro Maria Stella Gelmini (Pdl) commenta: «Tutto avrei immaginato tranne di andare d´accordo con Bersani, le liberalizzazioni sono troppo timide». Si consola La Russa: «Meno male che l´Inter ha vinto, altrimenti votare con la sinistra mi farebbe cadere in depressione». Sulle liberalizzazioni, comunque, il governo potrebbe tornare in un secondo momento, con un provvedimento ad hoc quando la manovra sarà al sicuro incassato il voto delle Camere. Bersani va oltre e sottolinea che la Chiesa dovrà essere costretta a pagare l´Ici almeno sugli esercizi commerciali.
Intanto da Di Pietro arriva il no alla manovra. Se in mattinata il suo partito aveva aperto uno spiraglio, in serata l´ex pm chiude la porta: «È una decisione sofferta ma obbligata, è una manovra classista, ingiusta, ingiustificata e iniqua», Monti dal canto suo di buon ora è al Senato a riferire sul summit Ue della scorsa settimana. Invita l´Unione europea a non dimenticare crescita e occupazione e ribadisce di avere cambiato la posizione italiana sulla Tobin Tax: se con Berlusconi il Paese era contrario a tassare le rendite finanziarie, con Monti la sostiene. È un modo anche per far scendere le tasse e abbattere il debito.

La Repubblica 15.12.11