«Il paese è più avanti del suo governo». Lo dice il Rapporto Italia 2009 dell’Eurispes. I fatti lo confermano. Il nostro è un paese nel quale il 58,5% degli italiani è favorevole al riconoscimento delle unioni civili, senza distinzione di sesso; il 52,5% considera l’omosessualità una forma di amore come le altre. Per il 40,4% gay e lesbiche avrebbero diritto di sposarsi. In Parlamento il tema semplicemente non si sfiora. La società cambia, (piccoli) passi verso il futuro, malgrado la crisi economica voglia spezzarglielo. Negli anni Settanta i matrimoni erano 400mila l’anno, oggi non superano i 270mila (i dati arrivano con due anni di ritardo rispetto alla data di riferimento degli eventi)e nel 2015 si prevede siano sorpassati dal numero dei conviventi che attualmente sono 637mila. Anche i matrimoni civili sono in crescita: il 32,45%: dieci anni fa erano poco meno del 20%. Un bambino su cinque nasce fuori dal matrimonio e ancora oggi vengono divisi in figli legittimi e figli naturali.
Il mercato
Anche il mercato cerca di cogliere questi segnali: la banca tedesca specializzata Bhw Bausparkasse, attiverà in Italia il mutuo per le coppie di fatto, comprese quelle omosessuali e tagliando lo «spread» dello 0,15% permetterà di calcolare i redditi cumulati. La Cassazione, dal canto suo, con la sentenza numero 20647 ha spianato la strada all’equiparazione tra coppie di fatto e matrimoni. Ha stabilito, infatti – confermando il carcere preventivo nei confronti di un 45enne di Torre del Greco che aveva picchiato la convivente -, «che non assume alcun rilievo la circostanza che l’azione delittuosa sia commessa ai danni di una persona convivente more uxorio».
Soltanto il parlamento è immobile. Attualmente tra Camera e Senato risultano depositati 8 testi, fra disegni di legge e proposte. nessuna di queste è calendarizzata. Materia che scotta, il Vaticano è troppo vicino, troppo ingombrante. Il governo Prodi che aveva provato a dare un segnale, con un ddl firmato da Barbara Pollastrini e Rosi Bindi – i Dico – rischiò la crisi. In commissione Giustizia la palla passò a Cesare Salvi che provò a lavorare a un testo unico: nacquero così i «Contratti di unione solidale».
Il IV governo Berlusconi ci ha riprovato con un annuncio ad effetto – ma «a titolo personale» – dei ministri Renato Brunetta e Gianfranco Rotondi. Il capogruppo alla Camera Maurizio Gasparri ha lanciato tuoni e fulmini. Alla fine il testo è stato depositato alla Camera, primi firmatari Barani – De Luca, sparite le firme dei ministri, ed ecco i Didore. Non sono una filastrocca, ma l’acronimo di «Disciplina dei diritti e doveri di reciprocità dei conviventi».
La destra fa solo annunci
Il testo mira innanzitutto a ribadire che non è una legge che miri in alcun modo a minare «la famiglia fondata sul matrimonio», in quanto unica «unione possibile destinataria delle politiche di sostegno economiche e sociali, messe in atto dallo Stato». Si cita anche la Chiesa Cattolica, nella persona del Cardinale Carlo Martini, che riconosce che «è possibile prendere in considerazione la rilevanza giuridica di forme di convivenza diverse da quelle fondate sul matrimonio». Detto e premesso tutto ciò, regola le convivenze tra persone unite «da legami affettivi e di solidarietà ai fini di reciproca assistenza e solidarietà» senza mai fare riferimento alla formula invisa dai cattolici «anche dello stesso sesso». Non le esclude e di questo prende atto la minoranza.
Il Pd, con un ddl a firma Vittoria Franco, (depositato il 29 aprile 2008) ripropone le Unioni di fatto e riproduce il testo presentato in Senato durante la scorsa legislatura e nel suo articolo 2 stabilisce che «Ai fini della presente legge si intende per unione civile l’accordo tra due persone, anche dello stesso sesso, stipulato al fine di regolare i rapporti personali e patrimoniali relativi alla loro vita in comune». Un patto vero e proprio. Un impegno. Intanto, mentre tutto resta fermo, in Italia se uno dei due partner ha bisogno di un intervento medico urgente e rischioso, l’altro non può autorizzarlo. Perché non è un parente. Punto. Non può neanche chiedere permessi di lavoro se il partner si ammala. Perché per la legge non esiste. Anche se convive da dieci o venti anni. Se un convivente partecipa all’impresa dell’altro non ha alcun diritto, a meno che non abbia stipulato un regolare contratto di società o di lavoro dipendente. Cose così, vita quotidiana.
L’Unità, 16 marzo 2009